Shuna, che nell’aspetto ricorda il giovane Ashitaka di Principessa Mononoke, come quest’ultimo cavalca uno stambecco, che nel racconto viene chiamato “yakkul”. Il suo viaggio verso ovest è costellato di difficoltà. Non solo incontri terrificanti con demoni del deserto, ma anche le avversità degli elementi naturali, la scarsezza di cibo e acqua e poi, naturalmente, i mercanti: di provviste e di schiavi, ma tutti intenti a rapinare e depredare. Il mondo in cui Shuna si muove è un mondo decadente e arrugginito, dove al rosso ferroso del deserto inaridito si contrappone l’azzurro vivido e accecante di un cielo sempre impietosamente sereno.
Si può dire senza tema di sbagliare che l’ultimo lavoro del maestro sia anche il più cupo, il più viscerale – in ogni senso possibile – il più gotico e il più tormentato. Si sfiorano picchi che neanche nella pur violenta Principessa Mononoke si erano visti e che il fondatore dello Studio Ghibli aveva forse squadernato davanti ai nostri occhi con tanta nettezza solo nel manga della sua Nausicaä della Valle del vento.
Tutto è soffuso e velato di una malinconia quasi mortifera: persino i colori brillanti del cielo e dei prati sterminati; persino le musiche scarne e puntute di Joe Hisaishi, qui decisamente minimalista; persino le immagini più ricorrenti che si susseguono sullo schermo.
[Il 1° Novembre Corriere della Sera ha pubblicato un editoriale firmato da Walter Veltroni: “Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi“.
In poco più di 800 parole l’ex-sindaco di Roma cercava di spiegare il “fenomeno manga” e provava a capire perché i “nostri ragazzi” sono stati conquistati dall’intrattenimento made in Asia: dai manga giapponesi agli show sudcoreani al k-pop.
Al netto della buona volontà, purtroppo quell’articolo si è rivelato un coacervo di luoghi comuni sul fumetto giapponese e su alcuni fenomeni della cultura pop contemporanea – con improponibili accostamenti fra manga, k-pop e Squid Game, che come unico minimo comun denominatore hanno la provenienza: il continente asiatico.
Seguendo le newsletter del Corriere e notando immediatamente questo articolo, da persona che ama e studia i manga mi sono sentita in dovere di rispondere alla redazione del giornale. Credo fermamente che un giornalismo di qualità debba dare spazio alle voci di chi studia un determinato fenomeno, se vuole fornire risposte chiare e informate.
Quando Netflix ha deciso di portare sulla sua piattaforma la creatura di Anno, per aggirare ogni problema di diritti ha deciso di ri-adattare e ri-doppiare completamente la serie, non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Italia. Al danno, anche la beffa, perché la sigla di chiusura, Fly Me To The Moon, è stata eliminata per non incorrere in altri problemi di diritti, che la piattaforma evidentemente non voleva pagare. La polemica che è scoppiata negli USA e in Italia all’indomani del rilascio della serie sulla piattaforma, il 21 giugno scorso, si incentra esattamente sullo stesso problema: una pessima traduzione che, lungi dall’essere più fedele, rende i dialoghi in più punti forzati. Nel caso italiano sono addirittura incomprensibili, come sottolineato dagli screen postati dalla pagina Facebook Gli sconcertanti adattamenti italiani dello Studio Ghibli.
Pur sembrando a tratti una vera e propria lista, nello spirito già annunciato dall’introduzione di essere un compendio dallo scopo ordinativo su un argomento che ha visto una letteratura ampia, sì, ma dispersiva, Storia dell’animazione giapponese mi ha catturato fin dalle prime pagine con la sua dissezione precisa e ragionata di tutta la costosa ed elaborata macchina da guerra che c’è dietro uno dei tanti anime che oggi possiamo – anche grazie a Internet – vedere e della cui animazione non sempre perfetta possiamo lamentarci.
Quello che ci si troverà davanti è un mix fra Alice nel Paese delle Meraviglie, il folklore giapponese e quei film Disney con animali umanoidi come protagonisti (tipo Robin Hood), ma senza buonismo disneyano e con un realismo che ben s’intreccia all’atmosfera pulita e lineare che hanno molti dei film dello Studio Ghibli, quel genere che ti rimette in pace con il mondo per l’ora e mezza di visione.
L’ho detto per “Inside Out” e lo ripeto anche qui senza tema di sbagliarmi: ci sono determinati film che sono fatti per toccarti l’anima; film che non importa se tu li abbia amati o odiati visceralmente, ti hanno provocato un’emozione fortissima guardandoli, perché restare indifferenti non si poteva; film che sono capolavori per l’efficacia e la profondità con cui esplorano i sentimenti più forti che gli esseri umani possano provare, catartici per il dolore che ti costringono a provare, come le antiche tragedie greche.
Eh beh, che v’aspettavate, che vi dicessi che era brutto? Nausicaä è meraviglioso, ha quell’aura anni Ottanta che anche noi, nati alla fine di quel decennio, ci sentiamo prendere dal groppo brutto di nostalgia di epoche mai davvero vissute. È così bello che mi arrabbio doppiamente perché solo tre giorni al cinema è una bestemmia. A undici euro poi. Sì, bla bla bla, le leggi del mercato, bla bla bla, ringrazia che almeno è passato al cinema, bla bla bla, le sale cinematografiche in Italia funzionano così, bla bla bla, insomma, l’ennesima riprova che il mondo fa schifo.
Prima di tutto il chi. La protagonista di “Quando c’era Marnie” è Anna, una ragazzina ormai dodicenne che ha più di qualche problema a relazionarsi con le persone, per non parlare degli attacchi d’asma, che la colgono in situazioni di particolare tensione. Per curare questa malattia, la sua tutrice – su consiglio del medico – manda Anna in vacanza da due lontani parenti. È qui, nell’aperta campagna dell’Hokkaido, che comincia l’avventura estiva della nostra protagonista ed è qui che Anna incontra e stringe amicizia con la Marnie del titolo. Dopodiché tutto il film sarà un crescendo di scoperte.
Ho sempre trovato uno dei punti di forza dello Studio Ghibli proprio questa capacità di emozionare lo spettatore attraverso la “magia delle piccole cose”, senza per forza dover mettere in campo epici duelli (che pure in alcune opere non mancano) e tragedie disumane. Ecco, “La storia della principessa splendente” sa far affezionare e commuovere puntando sul racconto dei più quotidiani e apparentemente banali momenti di vita in un Giappone medievale, intrecciandoli agli aspetti fantastici di quella che resta pur sempre una fiaba. Se così l’esordio del film ricorda quello del più occidentale Pollicino e sfrutta l’occasione per ritrarre un dolcissimo quadretto familiare, che ruota interno all’innaturale rapida crescita di Principessa Splendente (è quello il significato di “Kaguya” in giapponese); la seconda parte del film ricorda quei racconti europei di principesse irraggiungibili che mettono alla prova i propri pretendenti con prove iperbolicamente assurde.