Quella voglia matta di saltare nello schermo e abbracciare Charlie Brown Io sono sempre stata una grandissima fan dei “Peanuts”. Hanno fatto parte della mia infanzia fianco a fianco con…
“Spectre” è una rivisitazione fighetta e pretenziosa dei primissimi capitoli del franchise di James Bond. Se mi avessero detto che era il remake di “Dottor No” o simili, avrei risposto: «Davvero carino, un esperimento convincente, mi sono molto divertita. La scena sul treno era ironica, vero?!». Invece sono stata catapultata in un brutto film con Roger Moore che pretendeva di concludere la saga che ha ospitato un capolavoro (almeno per il genere spionistico e per il modo in cui ha ribaltato certe premesse dei vecchi James Bond) ricadendo in una mediocrità così pesante che mi è sceso il latte alle ginocchia.
Un giorno tutto questo dolore ci sarà utile? Un giorno scriverò un piccolo trattato sulla mistica di avere come vicino di poltroncina al cinema un altro essere umano. Ventiquattro anni…
Quando vai al cinema a vedere un film di un regista che sai essere bravo o comunque capace di dare un valore aggiunto alle sue storie, hai sempre delle aspettative. Se cadono nel vuoto, l’amarezza raddoppia, perché un film con delle potenzialità come lo era “Crimson Peak” è sempre un’occasione mancata e ti lascia con una serie di domande dentro che non avranno risposta. Si aggiunga che il film presentava un cast di rispetto, a cominciare da Tom Hiddleston, che è stato probabilmente la calamita per molti spettatori incuriositi dalla storia, e non era esattamente girato da un regista di primo pelo, e si capisce perché aveva tutte le carte in regola per stupire.
Allora, da dove cominciare? Devo dire che la cosa più inaspettata del film, più che lo stagista settantenne, è stato il tema principale. A giudicare dal titolo italiano (in inglese c’è un più sobrio “The Intern”) e dai trailer mi aspettavo un film che in modo ironico trattasse del dramma dei pensionati con pochi soldi in tasca, che arrotondano con lavoretti vari ed eventuali, perché il mercato del lavoro oggi è questo.
Penso che fosse da parecchio che non vedevo un prodotto rivolto ai bambini destare sentimenti tanto violenti e contrastanti nel pubblico di adulti che infestano tutti i mezzi di comunicazione a più livelli. Più o meno dai tempi in cui si diceva che “Sailor Moon” avrebbe fatto diventare tutte le bambine delle travestite e “Dragon Ball” avrebbe trasformato i bambini in assassini seriali.
Il primo dato che risalta da questo film è che si rivela godibile anche come stand alone. Per chi, come me, non aveva mai visto prima un film della serie – sì, nonostante il mio amore per i blockbuster esagerati – non c’è stato problema a seguire la vicenda né a capire i rapporti fra i personaggi (a proposito, credo che Simon Pegg nelle vesti di Benji sia diventato il mio personaggio preferito nel giro di mezza apparizione ma non è di questo che siete venuti a leggere quindi torniamo al film).
Dire che “Pixels” era un film imbarazzante, senza né capo né coda, è come sparare sulla Croce Rossa ma è la realtà dei fatti. Dal primo all’ultimo fotogramma la coerenza narrativa, il passaggio da una scena all’altra, la caratterizzazione dei personaggi, lo scambio di battute fra di loro, tutto sembra frutto di una sceneggiatura messa in piedi da un tram (cit.) team di quindicenni in piena tempesta ormonale che non riescono a raggiungere la sufficienza neanche nei temi scolastici.
Che dobbiamo dire di questo reboot, che prelude a una nuova trilogia? Partiamo dalle cose brutte, così ci togliamo subito i sassolini dalle scarpe. È un blockbuster hollywoodiano, non introduce nulla di nuovo a livello di trama, non ci sono scene memorabili, né diverse tecniche di ripresa o di regia o guizzi di sceneggiatura. Ha tutti i difetti del blockbuster contemporaneo: salva capra e cavoli, sempre e comunque; riduce le morti al minimo. Come tutti i blockbuster di fantasy/fantascienza ricorre all’espediente di introdurre il film al pubblico con una carrellata di una decina di minuti che ci fa il riassunto di tutte le puntate precedenti. È quell’ammasso di “infodumping” che una regia e una sceneggiatura più curate centellinerebbero a poco a poco nel corso della storia, lasciando che siano i personaggi a raccontarsi e raccontarci come siamo arrivati a questo punto.
Archiviato qualsiasi tentativo di ammazzare il povero t-rex di turno per dare più appeal alla storia, “Jurassic World” torna alle origini, ammicca ai personaggi e alle scene più iconiche del primo “Jurassic Park” e ci dà persino una spiegazione reale alla creazione dell’Indominus Rex (il dinosauro geneticamente modificato per provocare il “wow”, appunto) ben più solida della necessità di trovare nuove attrazioni per un pubblico costantemente affamato di novità.