Limitless è quel film brutto con delle premesse interessanti che finisci comunque per guardare, perché è thriller fantascientifico e perché c’è Robert De Niro che fa il tycoon della Finanza e pensi che – magari – è brutto perché il finale non è granché ma nel mezzo troverai tante cose interessanti. Che è brutto perché magari è uno di quei film un po’ effimeri, che lasciano il tempo che trovano e sanno di insoddisfazione.
Come da titolo, “Il fumetto supereroico” è un saggio che analizza il fumetto americano mainstream a tema supereroico prodotto dalla DC Comics e dalla Marvel e in special modo le testate e i supereroi di maggior successo popolare – ovvero, fra gli altri, Superman, Batman e Wonder Woman da un lato; Capitan America, Spiderman e gli X-Men dall’altro.
Suddiviso in tre aree tematiche, il saggio affronta l’analisi di questi fumetti da tre prospettive differenti.
La letteratura gotica è qualcosa che siamo abituati ad associare alla fine del Settecento e al mondo anglosassone, non certo all’Italia post-unificazione, eppure è un fatto che le novelle che Regina racconta ai suoi nipoti di tratti gotici ne abbiano, eccome.
Prosegue il viaggio della sottoscritta nello sterminato mondo della vita artistica di David Bowie e prosegue con un film che mi aspettavo essere del genere “space opera” è che invece è fantascienza classica at its finest, cupa, disperante, quel genere di fantascienza che sfrutta la dimensione spaziale e aliena per indagare fino in fondo l’abbrutimento del genere umano.
Fosse tutto qui il nocciolo del libro, “Moby Dick” sarebbe niente più e niente meno che una storia d’avventura e di mare, dell’infinita lotta fra l’Uomo e la Natura, il Bene e il Male (come da dichiarazione dello stesso Melville), un bel mattone di più di cinquecento pagine dal setting “esotico”.
Il problema – anzi, il lato bello – è che c’è molto di più.
La dura vita del prigioniero di guerra La settimana scorsa – e questo è di dominio pubblico, ormai – è morto David Bowie. Artista geniale e a dir poco eclettico,…
Chiunque avesse accesso al web Mercoledì e avesse fra gli amici/followers un appassionato di fantascienza o semplicemente nostalgico degli anni Ottanta sarà stato messo al corrente che si trattava di una data storica, uno di quegli eventi che capitano una volta nella storia: il 21 Ottobre 2015 alle quattro del pomeriggio Doc e Marty McFly, i due protagonisti della trilogia di “Ritorno al futuro”, approdavano in quello che all’epoca sembrava un futuro lontanissimo e costellato di chissà quali innovazioni. Per festeggiare l’evento, che è di quelli storici, perché una data del genere capita una volta sola nella storia – a meno che qualcuno non trucchi il calendario, ovviamente – nei cinema si è tenuto un raduno mondiale di fan con proiezione consecutiva dei primi due film della saga.
Confesso che ciò che mi ha attirato verso la lettura è stato, prima di tutto, il fatto che Takeshi Obata avesse curato i disegni, oltre al fatto che la trama del film mi avesse appassionato parecchio. Ho constatato con piacevole stupore che, però, i fatti narrati in “All you need is kill” (che è di genere seinen quindi più adulto della media dei manga shounen a cui siamo abituati, quando pensiamo ai fumetti di combattimento giapponesi) erano parecchio più pesanti di quelli del film né che il lieto fine a tutti i costi era assicurato.
Ho sempre trovato uno dei punti di forza dello Studio Ghibli proprio questa capacità di emozionare lo spettatore attraverso la “magia delle piccole cose”, senza per forza dover mettere in campo epici duelli (che pure in alcune opere non mancano) e tragedie disumane. Ecco, “La storia della principessa splendente” sa far affezionare e commuovere puntando sul racconto dei più quotidiani e apparentemente banali momenti di vita in un Giappone medievale, intrecciandoli agli aspetti fantastici di quella che resta pur sempre una fiaba. Se così l’esordio del film ricorda quello del più occidentale Pollicino e sfrutta l’occasione per ritrarre un dolcissimo quadretto familiare, che ruota interno all’innaturale rapida crescita di Principessa Splendente (è quello il significato di “Kaguya” in giapponese); la seconda parte del film ricorda quei racconti europei di principesse irraggiungibili che mettono alla prova i propri pretendenti con prove iperbolicamente assurde.
Partiamo dalla novel: “Il blu è un colore caldo” è un’opera prima e si vede. Si vede perché ha tutti i difetti di quest’ultima: un tratto di disegno ancora in sviluppo, una narrazione non sempre fluida, un eccesso di lirismo tragico che in alcuni punti rischia di rendere la vicenda quasi paradossale. Non voglio massacrare la novel, in fondo per molti passi mi è piaciuta, alcune pagine mi hanno davvero emozionata, ma è pur sempre un lavoro ancora acerbo, che contiene tutti gli errori tipici di chi comincia a mettere sul foglio la sua prima storia compiuta.