Quello che spiazza, quando muore uno come Chester Bennington, non è solo l’età – 41 anni, davvero troppi pochi per morire – ma il modo. Perché sentire che uno dei due lead vocalist dei Linkin Park si è suicidato, con un album in promozione, una carriera avviatissima, una bella moglie, sei figli e una bella casa, fa male.
L’inizio del concerto era previsto per le 21.00 ma la band che fa da apripista (i “Nothing but thieves” da Londra, carini, tengono bene il palco e il loro frontman sembra il gemello ritrovato di Matthew Bellamy, almeno nella voce) comincia a suonare alle 20.40 e finisce alle 21.30. Dopodiché trentacinque minuti di lunga, estenuante attesa che mi ricordano perché preferisco i concerti negli auditorium. No, non me la smenate con la storia che un vero concerto lo si vive solo nel prato antistante al palco, perché il raro sentore caprino di umano molto stagionato in Luglio inoltrato non è qualcosa che rende l’atmosfera di un live più vissuta e palpitante.
Lo spettacolo non ha assolutamente deluso. Prima di tutto l’acustica: nonostante fossimo nello spazio all’aperto antistante l’ippodromo vero e proprio, le casse rimandavano il suono in modo pulito e piacevole, senza bassi che scartano orribilmente e ti graffiano i timpani (e, vista l’afa, che la qualità del suono fosse davvero buona non era scontato). L’organizzazione, poi, ha avuto la felice pensata di ricoprire il “prato” di fronte al palco di tappetini di gomma, risparmiando a tutto il pubblico di passare la serata a calciare terra addosso ai vicini, nel tentativo di saltellare a ritmo con la musica.