Chiunque avesse accesso al web Mercoledì e avesse fra gli amici/followers un appassionato di fantascienza o semplicemente nostalgico degli anni Ottanta sarà stato messo al corrente che si trattava di una data storica, uno di quegli eventi che capitano una volta nella storia: il 21 Ottobre 2015 alle quattro del pomeriggio Doc e Marty McFly, i due protagonisti della trilogia di “Ritorno al futuro”, approdavano in quello che all’epoca sembrava un futuro lontanissimo e costellato di chissà quali innovazioni. Per festeggiare l’evento, che è di quelli storici, perché una data del genere capita una volta sola nella storia – a meno che qualcuno non trucchi il calendario, ovviamente – nei cinema si è tenuto un raduno mondiale di fan con proiezione consecutiva dei primi due film della saga.
Avevo detto che il film era una pietra miliare del cinema d’animazione. Ebbene, il manga – da cui poi il film è tratto – è anche meglio e non pensavo fosse possibile. Si tratta di una di quelle storie che vanno lette con attenzione ma soprattutto rilette, perché non basta un solo sguardo per comprenderne tutte le sfaccettature e apprezzarne non solo il messaggio di fondo ma anche l’evoluzione dei personaggi, sia principali che secondari.
Confesso che ciò che mi ha attirato verso la lettura è stato, prima di tutto, il fatto che Takeshi Obata avesse curato i disegni, oltre al fatto che la trama del film mi avesse appassionato parecchio. Ho constatato con piacevole stupore che, però, i fatti narrati in “All you need is kill” (che è di genere seinen quindi più adulto della media dei manga shounen a cui siamo abituati, quando pensiamo ai fumetti di combattimento giapponesi) erano parecchio più pesanti di quelli del film né che il lieto fine a tutti i costi era assicurato.
“Ant-Man” è un film nella media dei film supereroistici, non ci prova neanche per un minuto a essere qualcosa di diverso dall’ennesima parabola sull’ennesimo maschio bianco trentacinque-quarantenne che ha solo bisogno di un’altra possibilità per cambiare vita e diventare un eroe.
Dire che “Pixels” era un film imbarazzante, senza né capo né coda, è come sparare sulla Croce Rossa ma è la realtà dei fatti. Dal primo all’ultimo fotogramma la coerenza narrativa, il passaggio da una scena all’altra, la caratterizzazione dei personaggi, lo scambio di battute fra di loro, tutto sembra frutto di una sceneggiatura messa in piedi da un tram (cit.) team di quindicenni in piena tempesta ormonale che non riescono a raggiungere la sufficienza neanche nei temi scolastici.
“Welcome To Night Vale” sarebbe stato un signor radiodramma, per esempio. Lo specchietto introduttivo alle puntate lo definisce un universo lovecraftiano ma Joeffrey Cranor – uno dei due autori insieme a Joseph Fink – non ama molto il paragone quindi diciamo che Night Vale è una città che potrebbe ricalcare la tipica cittadina americana, con i suoi quartieri residenziali, le recite scolastiche, le file alle poste, il bowling, i comitati di quartiere e… mostri tentacolati che spuntano fuori da ogni dove, poltergeist che infestano ogni singola casa, draghi a cinque teste, misteriosi sconosciuti che dimentichi di aver incontrato un attimo dopo e un’amministrazione locale (The Sheriff’s Secret Police) che se ne lava molto spesso le mani – ma forse questo è un dato molto più reale di quello che sembra. Se si aggiunge che il nostro protagonista è lo speaker di punta della radio della comunità di Night Vale, Cecil Gershwin Palmer, e l’occorrenza di fenomeni paranormali insoliti (persino per gli standard di questo universo parallelo) cresce ogni volta che viene trasmessa una sua puntata, possiamo dire che abbiamo la nostra Jessica Fletcher e una bellissima e spaventosissima Cabot Cove.
Il film, nonostante sia una produzione coreana, vanta un cast eterogeneo di attori coreani, americani e anche francesi, che rispecchiano una bella multi-etnicità nell’equipaggio di passeggeri rinchiusi senza apparente scampo sul gigantesco treno, che attraversa un mondo gettato in una glaciazione artificiale dalla stupidità umana, tanto per cambiare. Una delle piccole chicche, che fa di questo film una produzione di fantascienza davvero ben costruita, sta proprio nel fatto che regista e sceneggiatori si sono ricordati di un dato fondamentale: non solo gli Americani si salvano, nelle distopie futuristiche, ergo non tutti i passeggeri potrebbero parlare l’inglese. È per questo che Curtis comunica con il coreano Minsu attraverso un traduttore vocale, ad esempio.
Che dobbiamo dire di questo reboot, che prelude a una nuova trilogia? Partiamo dalle cose brutte, così ci togliamo subito i sassolini dalle scarpe. È un blockbuster hollywoodiano, non introduce nulla di nuovo a livello di trama, non ci sono scene memorabili, né diverse tecniche di ripresa o di regia o guizzi di sceneggiatura. Ha tutti i difetti del blockbuster contemporaneo: salva capra e cavoli, sempre e comunque; riduce le morti al minimo. Come tutti i blockbuster di fantasy/fantascienza ricorre all’espediente di introdurre il film al pubblico con una carrellata di una decina di minuti che ci fa il riassunto di tutte le puntate precedenti. È quell’ammasso di “infodumping” che una regia e una sceneggiatura più curate centellinerebbero a poco a poco nel corso della storia, lasciando che siano i personaggi a raccontarsi e raccontarci come siamo arrivati a questo punto.
Archiviato qualsiasi tentativo di ammazzare il povero t-rex di turno per dare più appeal alla storia, “Jurassic World” torna alle origini, ammicca ai personaggi e alle scene più iconiche del primo “Jurassic Park” e ci dà persino una spiegazione reale alla creazione dell’Indominus Rex (il dinosauro geneticamente modificato per provocare il “wow”, appunto) ben più solida della necessità di trovare nuove attrazioni per un pubblico costantemente affamato di novità.
A onore del film va subito detto che aver affidato nuovamente la regia al suo creatore originale, in questo caso, è significato trovarsi davanti a un prodotto coerente, non un semplice revival del passato. Miller non ha parlato a caso di “rivisitazione”: basta guardare la trama del primo “Mad Max” per rendersi conto che il nostro è passato da protagonista incontrastato a spalla – all’inizio assai riluttante – di altri personaggi; al tema della violenza urbana che dilaga lì dove l’anarchia la fa da padrone, si sostituisce la prepotenza di chi ha il potere di controllare l’accesso alle materie prime e governare la popolazione secondo i propri capricci.