Al di là di tutto ciò che di bene e di male si può dire di Batman V Superman una cosa è già chiara in partenza: le botte vere, gli scontri epocali fra due istanze insanabili, che spesso hanno più torto che ragione e si muovono su presupposti fallaci in partenza, non li vedi nel film.

No.

Li vedi sul web, nel fandom, fra i fan inferociti come se gli avessero rapito la mamma e picchiato l’animale da compagnia, come se Zack Snyder in persona fosse andato a casa loro e avesse cominciato a rompergli tutte le cassettine dei Pokémon.

L’ondata di isteria collettiva che ha diviso e sta dividendo critica e pubblico fra i frettolosi «non l’ho visto ma già so che è una merda» e i pretestuosi «capolavoro finale» ha un demerito fra tutti: quello di aver impedito qualsiasi critica costruttiva sul genere supereroistico al cinema, affrettandosi a sollevare muri in un senso o nell’altro, come da un po’ accade per l’uscita di queste grosse produzioni.

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Ultimamente vedo solo film che mi deludono (non è vero, l’altro giorno ho visto “Furyo” e mi è piaciuto da morire ma ve ne parlerò in un’altra recensione). In questo caso andavo al cinema in un misto di aspettativa per la presenza di un certo personaggio e la consapevolezza che sarei rimasta delusa di nuovo, visto l’andazzo che aveva ormai preso la terza stagione di “Sherlock” (e nonostante quel brillante terzo episodio che si faceva quasi perdonare quello che precedeva).

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L’ho detto per “Inside Out” e lo ripeto anche qui senza tema di sbagliarmi: ci sono determinati film che sono fatti per toccarti l’anima; film che non importa se tu li abbia amati o odiati visceralmente, ti hanno provocato un’emozione fortissima guardandoli, perché restare indifferenti non si poteva; film che sono capolavori per l’efficacia e la profondità con cui esplorano i sentimenti più forti che gli esseri umani possano provare, catartici per il dolore che ti costringono a provare, come le antiche tragedie greche.

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Partiamo dalla novel: “Il blu è un colore caldo” è un’opera prima e si vede. Si vede perché ha tutti i difetti di quest’ultima: un tratto di disegno ancora in sviluppo, una narrazione non sempre fluida, un eccesso di lirismo tragico che in alcuni punti rischia di rendere la vicenda quasi paradossale. Non voglio massacrare la novel, in fondo per molti passi mi è piaciuta, alcune pagine mi hanno davvero emozionata, ma è pur sempre un lavoro ancora acerbo, che contiene tutti gli errori tipici di chi comincia a mettere sul foglio la sua prima storia compiuta.

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Il film, nonostante sia una produzione coreana, vanta un cast eterogeneo di attori coreani, americani e anche francesi, che rispecchiano una bella multi-etnicità nell’equipaggio di passeggeri rinchiusi senza apparente scampo sul gigantesco treno, che attraversa un mondo gettato in una glaciazione artificiale dalla stupidità umana, tanto per cambiare. Una delle piccole chicche, che fa di questo film una produzione di fantascienza davvero ben costruita, sta proprio nel fatto che regista e sceneggiatori si sono ricordati di un dato fondamentale: non solo gli Americani si salvano, nelle distopie futuristiche, ergo non tutti i passeggeri potrebbero parlare l’inglese. È per questo che Curtis comunica con il coreano Minsu attraverso un traduttore vocale, ad esempio.

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“Youth” non ha smentito l’assioma. Guardare questo film significa essere sommersi da una miriade di colori, suoni, sensazioni e situazioni che rimangono impresse negli occhi e nella mente molto dopo aver abbandonato la sala del cinema. D’altronde il cinema di Sorrentino è anche e soprattutto questo: narrazione per emozioni, più che per eventi legati da un rapporto di causa ed effetto. È un modo di svelare la storia allo spettatore che lascia tanto spazio all’interpretazione personale, al punto che probabilmente non ci saranno due singole persone che potranno dire di aver vissuto e compreso allo stesso modo ogni scena del film.

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Va detto da subito: il ritmo narrativo de “Il racconto dei racconti” non è quello a cui ci ha abituato il mercato cinematografico contemporaneo. I dialoghi sono pochi, le transizioni, da un passaggio all’altro di una singola storia, nette; le creature fantastiche e le magie a cui i protagonisti ricorrono non vengono spiegate ma presentate allo spettatore come un dato di fatto, che va accettato senza porsi troppe domande. Insomma, è un film girato come sarebbe raccontata una fiaba. Garrone si sofferma molto sui paesaggi stupendi e assolati di zone d’Italia spesso sconosciute (le riprese sono state effettuate fra il Centro e il Sud Italia), che sembrano venire fuori direttamente da una fiaba e contribuiscono a rendere l’atmosfera delle storie sognante, meravigliosa, anche quando le vicende si fanno più cupe e crudeli.

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