Pur sembrando a tratti una vera e propria lista, nello spirito già annunciato dall’introduzione di essere un compendio dallo scopo ordinativo su un argomento che ha visto una letteratura ampia, sì, ma dispersiva, Storia dell’animazione giapponese mi ha catturato fin dalle prime pagine con la sua dissezione precisa e ragionata di tutta la costosa ed elaborata macchina da guerra che c’è dietro uno dei tanti anime che oggi possiamo – anche grazie a Internet – vedere e della cui animazione non sempre perfetta possiamo lamentarci.
Quello che ci si troverà davanti è un mix fra Alice nel Paese delle Meraviglie, il folklore giapponese e quei film Disney con animali umanoidi come protagonisti (tipo Robin Hood), ma senza buonismo disneyano e con un realismo che ben s’intreccia all’atmosfera pulita e lineare che hanno molti dei film dello Studio Ghibli, quel genere che ti rimette in pace con il mondo per l’ora e mezza di visione.
L’ho detto per “Inside Out” e lo ripeto anche qui senza tema di sbagliarmi: ci sono determinati film che sono fatti per toccarti l’anima; film che non importa se tu li abbia amati o odiati visceralmente, ti hanno provocato un’emozione fortissima guardandoli, perché restare indifferenti non si poteva; film che sono capolavori per l’efficacia e la profondità con cui esplorano i sentimenti più forti che gli esseri umani possano provare, catartici per il dolore che ti costringono a provare, come le antiche tragedie greche.
Eh beh, che v’aspettavate, che vi dicessi che era brutto? Nausicaä è meraviglioso, ha quell’aura anni Ottanta che anche noi, nati alla fine di quel decennio, ci sentiamo prendere dal groppo brutto di nostalgia di epoche mai davvero vissute. È così bello che mi arrabbio doppiamente perché solo tre giorni al cinema è una bestemmia. A undici euro poi. Sì, bla bla bla, le leggi del mercato, bla bla bla, ringrazia che almeno è passato al cinema, bla bla bla, le sale cinematografiche in Italia funzionano così, bla bla bla, insomma, l’ennesima riprova che il mondo fa schifo.
“La Resurrezione di ‘F’” promette tante cose, molte più di “Battle of Gods”, che era stato lo strombazzatissimo ritorno al cinema della serie di “Dragon Ball” e aveva poi fatto da rilancio per la nuova, ennesima serie filler che munge ancora dalla grassa vacca che è stata la fortunata serie degli anni Ottanta (sia anime che manga). Il problema è che, nel frattempo, la qualità dell’animazione e delle sceneggiature è peggiorata. Se, nel primo caso, si tratta di un problema sistemico a tutta l’industria dell’animazione giapponese contemporanea; il secondo è frutto di pura pigrizia da parte di sceneggiatori e produttori che sanno quanto vasto e affezionato sia il fandom e soprattutto quanto i nostalgici siano pronti ad affollare le sale per rivivere i ricordi della loro infanzia.
Prima di tutto il chi. La protagonista di “Quando c’era Marnie” è Anna, una ragazzina ormai dodicenne che ha più di qualche problema a relazionarsi con le persone, per non parlare degli attacchi d’asma, che la colgono in situazioni di particolare tensione. Per curare questa malattia, la sua tutrice – su consiglio del medico – manda Anna in vacanza da due lontani parenti. È qui, nell’aperta campagna dell’Hokkaido, che comincia l’avventura estiva della nostra protagonista ed è qui che Anna incontra e stringe amicizia con la Marnie del titolo. Dopodiché tutto il film sarà un crescendo di scoperte.
Ho sempre trovato uno dei punti di forza dello Studio Ghibli proprio questa capacità di emozionare lo spettatore attraverso la “magia delle piccole cose”, senza per forza dover mettere in campo epici duelli (che pure in alcune opere non mancano) e tragedie disumane. Ecco, “La storia della principessa splendente” sa far affezionare e commuovere puntando sul racconto dei più quotidiani e apparentemente banali momenti di vita in un Giappone medievale, intrecciandoli agli aspetti fantastici di quella che resta pur sempre una fiaba. Se così l’esordio del film ricorda quello del più occidentale Pollicino e sfrutta l’occasione per ritrarre un dolcissimo quadretto familiare, che ruota interno all’innaturale rapida crescita di Principessa Splendente (è quello il significato di “Kaguya” in giapponese); la seconda parte del film ricorda quei racconti europei di principesse irraggiungibili che mettono alla prova i propri pretendenti con prove iperbolicamente assurde.