Prima di tutto il chi. La protagonista di “Quando c’era Marnie” è Anna, una ragazzina ormai dodicenne che ha più di qualche problema a relazionarsi con le persone, per non parlare degli attacchi d’asma, che la colgono in situazioni di particolare tensione. Per curare questa malattia, la sua tutrice – su consiglio del medico – manda Anna in vacanza da due lontani parenti. È qui, nell’aperta campagna dell’Hokkaido, che comincia l’avventura estiva della nostra protagonista ed è qui che Anna incontra e stringe amicizia con la Marnie del titolo. Dopodiché tutto il film sarà un crescendo di scoperte.
Ho comprato questo libro attirata dalla fascetta in copertina, che recitava: “Il libro dell’autore che ha ispirato Grand Budapest Hotel”. Avendo molto apprezzato il film, ho comprato il libro a colpo sicuro ma, già dopo aver sfogliato le prime pagine, mi sono resa conto che l’ispirazione non è nata tanto e solo dai fatti narrati da Zweig quanto dallo spirito di cui è informata tutta l’opera.
“Ant-Man” è un film nella media dei film supereroistici, non ci prova neanche per un minuto a essere qualcosa di diverso dall’ennesima parabola sull’ennesimo maschio bianco trentacinque-quarantenne che ha solo bisogno di un’altra possibilità per cambiare vita e diventare un eroe.
Dire che “Pixels” era un film imbarazzante, senza né capo né coda, è come sparare sulla Croce Rossa ma è la realtà dei fatti. Dal primo all’ultimo fotogramma la coerenza narrativa, il passaggio da una scena all’altra, la caratterizzazione dei personaggi, lo scambio di battute fra di loro, tutto sembra frutto di una sceneggiatura messa in piedi da un tram (cit.) team di quindicenni in piena tempesta ormonale che non riescono a raggiungere la sufficienza neanche nei temi scolastici.
Devo fare subito un po’ di appunti “tecnici” e “stilistici” al libro: è una biografia scritta nello stile più piatto e cronachistico che abbia mai letto. Confesso che le uniche biografie che ho letto in vita mia sono quelle di personaggi storici famosi (tipo quella su “Carlo V” di Gerosa, che mi ha segnato i sedici anni in bene) quindi suppongo che invece ci sia bisogno di usare le pinze, quando si parla di gente ancora viva o con parenti viventi che hanno diritti di copyright pure sulle sillabe del tuo nome. Mi è sembrato di leggere un tema scolastico, con qualche erroraccio di consecutio temporum che non so se imputare alla traduzione o proprio all’autore originale del libro.
Ho sempre trovato uno dei punti di forza dello Studio Ghibli proprio questa capacità di emozionare lo spettatore attraverso la “magia delle piccole cose”, senza per forza dover mettere in campo epici duelli (che pure in alcune opere non mancano) e tragedie disumane. Ecco, “La storia della principessa splendente” sa far affezionare e commuovere puntando sul racconto dei più quotidiani e apparentemente banali momenti di vita in un Giappone medievale, intrecciandoli agli aspetti fantastici di quella che resta pur sempre una fiaba. Se così l’esordio del film ricorda quello del più occidentale Pollicino e sfrutta l’occasione per ritrarre un dolcissimo quadretto familiare, che ruota interno all’innaturale rapida crescita di Principessa Splendente (è quello il significato di “Kaguya” in giapponese); la seconda parte del film ricorda quei racconti europei di principesse irraggiungibili che mettono alla prova i propri pretendenti con prove iperbolicamente assurde.
Partiamo dalla novel: “Il blu è un colore caldo” è un’opera prima e si vede. Si vede perché ha tutti i difetti di quest’ultima: un tratto di disegno ancora in sviluppo, una narrazione non sempre fluida, un eccesso di lirismo tragico che in alcuni punti rischia di rendere la vicenda quasi paradossale. Non voglio massacrare la novel, in fondo per molti passi mi è piaciuta, alcune pagine mi hanno davvero emozionata, ma è pur sempre un lavoro ancora acerbo, che contiene tutti gli errori tipici di chi comincia a mettere sul foglio la sua prima storia compiuta.
L’inizio del concerto era previsto per le 21.00 ma la band che fa da apripista (i “Nothing but thieves” da Londra, carini, tengono bene il palco e il loro frontman sembra il gemello ritrovato di Matthew Bellamy, almeno nella voce) comincia a suonare alle 20.40 e finisce alle 21.30. Dopodiché trentacinque minuti di lunga, estenuante attesa che mi ricordano perché preferisco i concerti negli auditorium. No, non me la smenate con la storia che un vero concerto lo si vive solo nel prato antistante al palco, perché il raro sentore caprino di umano molto stagionato in Luglio inoltrato non è qualcosa che rende l’atmosfera di un live più vissuta e palpitante.
“Welcome To Night Vale” sarebbe stato un signor radiodramma, per esempio. Lo specchietto introduttivo alle puntate lo definisce un universo lovecraftiano ma Joeffrey Cranor – uno dei due autori insieme a Joseph Fink – non ama molto il paragone quindi diciamo che Night Vale è una città che potrebbe ricalcare la tipica cittadina americana, con i suoi quartieri residenziali, le recite scolastiche, le file alle poste, il bowling, i comitati di quartiere e… mostri tentacolati che spuntano fuori da ogni dove, poltergeist che infestano ogni singola casa, draghi a cinque teste, misteriosi sconosciuti che dimentichi di aver incontrato un attimo dopo e un’amministrazione locale (The Sheriff’s Secret Police) che se ne lava molto spesso le mani – ma forse questo è un dato molto più reale di quello che sembra. Se si aggiunge che il nostro protagonista è lo speaker di punta della radio della comunità di Night Vale, Cecil Gershwin Palmer, e l’occorrenza di fenomeni paranormali insoliti (persino per gli standard di questo universo parallelo) cresce ogni volta che viene trasmessa una sua puntata, possiamo dire che abbiamo la nostra Jessica Fletcher e una bellissima e spaventosissima Cabot Cove.
Il film, nonostante sia una produzione coreana, vanta un cast eterogeneo di attori coreani, americani e anche francesi, che rispecchiano una bella multi-etnicità nell’equipaggio di passeggeri rinchiusi senza apparente scampo sul gigantesco treno, che attraversa un mondo gettato in una glaciazione artificiale dalla stupidità umana, tanto per cambiare. Una delle piccole chicche, che fa di questo film una produzione di fantascienza davvero ben costruita, sta proprio nel fatto che regista e sceneggiatori si sono ricordati di un dato fondamentale: non solo gli Americani si salvano, nelle distopie futuristiche, ergo non tutti i passeggeri potrebbero parlare l’inglese. È per questo che Curtis comunica con il coreano Minsu attraverso un traduttore vocale, ad esempio.