Intervista con la Tessitrice
Prima di tutto: chi sei?
Sono la Morte. Sono il tuo incubo peggiore. Sono quel residuo di burro d’arachidi che ti si attacca al palato e non va più via. Sono il vecchio in pensione che litiga con l’impiegato per la ruvidezza della carta dei bollettini, quando devono chiamare proprio il tuo numero e hai lasciato il tuo gatto delle nevi parcheggiato in tripla fila.
Puoi dare delle risposte serie, per piacere?
No. Se vuoi informazioni serie su di me, c’è LinkedIn. Questa auto-intervista è un tentativo poco spiritoso di raccontare in maniera frizzante una vita liscia, come l’acqua di rubinetto.
Va bene, proseguiamo con le “5W” o quello che ti pare. Cosa fai?
Scrivo. Lo scrivo (LOL) dappertutto nei miei profili più o meno ufficiali. Scrivo da più di undici anni per combattere il male di vivere, tutto figlio del senso di impotenza di non poter cambiare il mondo attorno a me. È soddisfacente inventarti dei mondi tutti tuoi e poi buttare giù il castello di carte immaginario e far piangere i tuoi personaggi. Magari anche dargli delle soddisfazioni, alla fine, perché i lieto fine mi piacciono, ma solo quando i protagonisti ci arrivano con le ossa rotte e lasciandosi dietro una scia di rimpianti e rimorsi (e anche qualche morto).
Insomma, come quando tiravi su storie con gli omini Lego che si picchiavano o le Barbie che si lanciavano dall’ultimo piano del grattacielo?
Esatto, vedo che come intervistatrice hai fatto le tue debite ricerche.
Mmmh, meglio che sto zitta. Come hai portato avanti questa tua passione per la scrittura e come l’hai trasformata in “qualcosa di più”?
Un lavoro. La parola che stai cercando è “lavoro”, anche se oggi – nel campo artistico e non solo – molti datori di non-lavoro ritengono che darti visibilità al posto di denaro sonante sia tutto ciò che ti serve per pagarti il prosciutto al supermercato.
[L’intervistata apre parentesi troppo lunghe e non risponde alle domande in maniera diretta, n.d.A.]
Ad ogni modo, mi sono esercitata. Leggendo, tanto, guardando serie TV e film, parecchi, e cercando di dissezionarli, per capirne i meccanismi narrativi, smontarli, rimontarli, giocare con personaggi che non sono i miei per capire come sono stati costruiti per funzionare così bene (o male, delle volte).
E poi ho scritto, prima fanfiction – perché per me non c’è esercizio migliore che prendere personaggi già esistenti, spostarli in altri contesti e vedere in che modo reagiscono, come se stessi studiando le reazioni di cavie (per fortuna immaginarie) a determinati stimoli. È divertente e rilassante, non devi impegnarti troppo a creare un background, ha già un manichino a cui appoggiare i tuoi vestiti, non devi creare per forza tutto da zero.
Il motivo che mi ha spinto a cominciare a studiare più nel dettaglio le tecniche e gli stili di narrazione nei diversi mezzi di comunicazione è più o meno simile. Analizzando, criticamente, il lavoro artistico altrui cominci a capire un po’ meglio come funziona, questa roba dell’inventarsi storie – che sia per libri, fumetti, serie TV, film, podcast o videogiochi.
Poi però il desiderio di mettere letterariamente al mondo personaggi tutti tuoi si fa più forte di tutto. E a quel punto decidi che vuoi raccontare la tua storia, non rielaborare quelle degli altri.
Beh, che dire. Una risposta seria, sono colpita.
Però adesso anche basta, che i nostri lettori poi si annoiano, su, che abbiamo ancora due “W” da sbrigare.
Senti, qui le domande le faccio io. E comunque: quando hai capito che avresti voluto trasformare questo hobby, questa privatissima valvola di sfogo, in un lavoro?
Guarda, non sono brava con le date e faccio difficoltà a ricordare quando precisamente sono accaduti gli avvenimenti chiave della mia vita. Penso, circa, cinque anni fa, quando ho terminato il mio percorso universitario.
Più guardavo film e leggevo libri e più mi dicevo che ero stanca di osservare le storie degli altri, volevo scrivere storie mie. E poi c’era “Ganymedian Meltdown” nel retro della mia mente che premeva per uscire fuori, fino a quel momento ricamato solo in testa e solo nei lunghi trasbordi in metro, quando avevo abbastanza tempo libero per immaginare panorami innevati e distopici sulle lune di Giove.
Un’altra risposta seria! Pazzesco! Vediamo se riusciamo a farne tre di fila. Dove preferisci creare?
Io lo so che per la salute della mia schiena dovrei stare seduta alla scrivania, ma solitamente le idee migliori o mi vengono mentre sto spalmata a uso criceto sul divano con il pc in bilico sulle gambe o al bagno. Non c’è miglior pensatoio, potrei montarci un tavolino, lì dentro.
Vabbè, vedi, stavo già sperando troppo da questa intervista.
Ma è la verità!
Passiamo alla domanda finale, via: perché scrivi?
Sì, però. Te l’ho già detto nella risposta al “cosa fai” i motivi che mi spingono a inondare fogli su fogli – virtuali e non – di parole. Una brava intervistatrice dovrebbe anche modificare le sue domande in base a quello che le risponde l’intervistato, lo sai?
Gné gné gné.
Mandami il testo dell’articolo, prima di pubblicarlo, voglio visionarlo per assicurarmi che non mi metterai in cattiva luce, travisando le mie parole.
No. Buonasera.