3230 d.C.
Heosphoros.
L’unico insediamento umano su Ganimede è governato con pugno di ferro da un’unica azienda. La Hecates Inc. ha pagato a caro prezzo la terraformazione della luna gioviana e dalla sua centrale nucleare dipende la sopravvivenza della città più fredda del Sistema Solare.
La messa a punto del primo reattore nucleare a fusione calda potrebbe presto risollevare le sorti della millenaria impresa energetica.
O così sperano i vertici della Hecates Inc…
“Via Col Vento” è anche un romanzo razzista, si sente dire spesso, e questa caratteristica viene trattata come una nota al margine di una storia imponente che “parla d’altro”. Invece, grattando la superficie di crinoline, terra rossa, “coraggiosi meridionali” e viziate signorine in disgrazia, si scopre che il fulcro del romanzo di Margaret Mitchell è proprio questo.
La sopravvivenza del privilegio bianco.
“Via Col Vento” è un pezzo ben scritto di propaganda confederata. Con la forza di una storia dai toni pesantemente melodrammatici e dai contenuti apparentemente universali (nascite e morti, amori irrealizzabili e relazioni tormentate, fame, guerra, malattie, distruzione e ricostruzione, c’è tutto), Margaret Mitchell ci distrae, mentre ci propina il peggior rigurgito di revanscismo sudista.
Lulu a Hollywood comincia con l’infanzia di Louise in Kansas e un ritratto – impietoso ma senza rancore – di suo padre, avvocato, e di sua madre, distante e fredda pianista a tempo perso. Ogni capitolo dell’autobiografia, da quelli che si concentrano sulla vita di Louise a quelli che raccontano di famose stelle del cinema, sono ritratti ficcanti e dissacranti non solo dei protagonisti del racconto ma anche della complessa galassia di comprimari – giornalisti, produttori, stuntman, tuttofare, familiari di vario grado – che ruotano attorno a loro.
Ci sono determinati libri che ti lasciano, a ogni lettura, qualcosa di diverso, specialmente se ti trovi a sfogliarli in momenti particolari della tua vita. Ed è ovvio che quello che ti colpirà di più di un romanzo a quindici anni non lo farà anche a trenta o scoprirai altri aspetti che nella ottusa cecità della tua adolescenza hai completamente ignorato. Il Signore degli Anelli è sicuramente quel genere di storia per me – con buona pace di chi pensa che la letteratura di genere sia per ragazzini e comunque meno complessa dei romanzi impegnati – ma in questo caso specifico due fattori hanno trasformato questa rilettura in una nuova avventura.
Lo spunto per “The Last Ringbearer” è il seguente: e se “Il Signore degli Anelli” fosse un resoconto falso e tendenzioso delle guerre che hanno travagliato la Terra di Mezzo? E se Gandalf fosse un maneggione, miope e assetato di potere, intenzionato ad annientare la nascente potenza industriale di Mordor per mantenere Arda nell’ignoranza, schiava di credenze magiche oscurantiste? E se gli Elfi fossero una sorta di sinistra potenza dittatoriale, non dissimile dall’Unione Sovietica? E se Aragorn fosse solo un burattino nelle mani di questi ultimi e Arwen un elfo interessato soltanto a usarlo, per mantenere il controllo su Gondor?
Retreat (Miyazaki). Rebuild (Anno). Reset (CLAMP).
Se si volesse trovare un modo per riassumere l’imponente – circa trecentoventi pagine, al netto di note e bibliografia – saggio di Thomas Lamarre sulla “macchina animetica”, questa frase sarebbe quella giusta. Con questi tre concetti Lamarre chiude le conclusioni del suo libro e del suo viaggio nell’animazione o, meglio ancora, nella macchina che sta alla base dell’animazione. La macchina multiplanare animetica (multiplanar animetic machine, nel testo originale) è una macchina costituita dal tavolo da animazione (animation stand, in inglese) dalla camera multipiano e dagli esseri umani, che disegnano sfondi, animazioni-chiave e intercalazioni.
Per parlare di quanto sia bella e particolare la narrazione de Il Sistema Periodico, bisognerebbe partire proprio dalla fine, da Carbonio, ultimo dei racconti e in qualche maniera manifesto dello spirito che informa questa raccolta e che si incarna in modo commovente nella descrizione del viaggio centenario di un atomo di carbonio e della sua inconsapevole collaborazione alla creazione di queste storie.
Perché anche la chimica è un’arte che, insieme alla scrittura, ha contribuito a salvare Primo Levi da un inferno di ricordi che avrebbero potuto perseguitarlo per il resto della sua vita.
Perché il romanzo di Ito Ogawa è davvero la storia della Locanda Arcobaleno – una locanda dove gli amori diversi non sono solo quelli delle coppie LGBT*QIA. Gli stessi legami affettivi fra parenti, amici, vicini e persino fra avventori e proprietarie della locanda sono vissuti con una diversità che si oppone alla rassegnata uniformità a cui i rapporti codificati, della società giapponese e non solo, ci hanno abituato.
Pubblicato anche in italiano (“Il Drago e la Saetta”), sempre per i tipi della Tunué, in un formato più ridotto, nella sua versione inglese – curata in collaborazione con la Japan Foundation, che si occupa di agevolare la diffusione all’estero di saggi e studi sulla cultura giapponese – The Dragon and the Dazzle si presenta come un lavoro ragionato e molto curato, seppur con limiti segnalati dall’autore stesso, su come la cultura pop giapponese si sia sviluppata a partire dal secondo dopoguerra e su come abbia attraversato diverse fasi, prima di essere completamente accettata nel mondo occidentale.
Se mi avessero detto che la lettura di questo trittico sarebbe stata così emotivamente impegnativa, ci avrei pensato due volte.
In realtà no.
In realtà lo avrei letto lo stesso, anche se ci ho messo mesi a digerire certe parti. Perché, ed entriamo subito nel merito della questione, Irvine Welsh non ti risparmia niente.