Retreat (Miyazaki). Rebuild (Anno). Reset (CLAMP).

Se si volesse trovare un modo per riassumere l’imponente – circa trecentoventi pagine, al netto di note e bibliografia – saggio di Thomas Lamarre sulla “macchina animetica”, questa frase sarebbe quella giusta. Con questi tre concetti Lamarre chiude le conclusioni del suo libro e del suo viaggio nell’animazione o, meglio ancora, nella macchina che sta alla base dell’animazione. La macchina multiplanare animetica (multiplanar animetic machine, nel testo originale) è una macchina costituita dal tavolo da animazione (animation stand, in inglese) dalla camera multipiano e dagli esseri umani, che disegnano sfondi, animazioni-chiave e intercalazioni.

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Quando Netflix ha deciso di portare sulla sua piattaforma la creatura di Anno, per aggirare ogni problema di diritti ha deciso di ri-adattare e ri-doppiare completamente la serie, non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Italia. Al danno, anche la beffa, perché la sigla di chiusura, Fly Me To The Moon, è stata eliminata per non incorrere in altri problemi di diritti, che la piattaforma evidentemente non voleva pagare. La polemica che è scoppiata negli USA e in Italia all’indomani del rilascio della serie sulla piattaforma, il 21 giugno scorso, si incentra esattamente sullo stesso problema: una pessima traduzione che, lungi dall’essere più fedele, rende i dialoghi in più punti forzati. Nel caso italiano sono addirittura incomprensibili, come sottolineato dagli screen postati dalla pagina Facebook Gli sconcertanti adattamenti italiani dello Studio Ghibli.

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Ci sono due modi per spiegare cos’è Space Dandy a qualcuno che non l’ha mai visto: le avventure di uno sfigatissimo cacciatore di alieni rari con una passione insana per i bei fondoschiena femminili (un vero e proprio “sommelier della natica”); in alternativa, un viaggio psichedelico attraverso i tipi più ricorrenti della fantascienza e dell’animazione mainstream giapponese.

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L’ho detto per “Inside Out” e lo ripeto anche qui senza tema di sbagliarmi: ci sono determinati film che sono fatti per toccarti l’anima; film che non importa se tu li abbia amati o odiati visceralmente, ti hanno provocato un’emozione fortissima guardandoli, perché restare indifferenti non si poteva; film che sono capolavori per l’efficacia e la profondità con cui esplorano i sentimenti più forti che gli esseri umani possano provare, catartici per il dolore che ti costringono a provare, come le antiche tragedie greche.

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“La Resurrezione di ‘F’” promette tante cose, molte più di “Battle of Gods”, che era stato lo strombazzatissimo ritorno al cinema della serie di “Dragon Ball” e aveva poi fatto da rilancio per la nuova, ennesima serie filler che munge ancora dalla grassa vacca che è stata la fortunata serie degli anni Ottanta (sia anime che manga). Il problema è che, nel frattempo, la qualità dell’animazione e delle sceneggiature è peggiorata. Se, nel primo caso, si tratta di un problema sistemico a tutta l’industria dell’animazione giapponese contemporanea; il secondo è frutto di pura pigrizia da parte di sceneggiatori e produttori che sanno quanto vasto e affezionato sia il fandom e soprattutto quanto i nostalgici siano pronti ad affollare le sale per rivivere i ricordi della loro infanzia.

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