Attendevo non dico con ansia ma di certo con molta curiosità questo secondo capitolo, essendomi parecchio divertita a guardare il primo film. Se “Inside Out” era un film rivolto più agli adulti che ai bambini, “Hotel Transylvania 2” è il classico film d’animazione per famiglie che ha l’unica pretesa di tenerti compagnia per una serata in modo leggero e senza troppi impegni.
Un film che parla di emozioni, della fatica di crescere, dell’importanza di abbandonarsi a sentimenti negativi e non solo di essere sempre felici può influenzare il giudizio complessivo sulla gestione della trama, sull’animazione, sulla musica, insomma su tutti quei lati tecnici di cui bisogna tener conto, se si vuole giudicare la qualità obiettiva di un film e non solo l’impatto che ha avuto su di noi a livello emozionale.
Anche perché, al netto delle differenze, mi pare che “Hulk” abbia saputo rispettare quello che è il principio cardine del personaggio: il conflitto fra Bruce Banner e l’incontrollabile rabbia che cova dentro di sé, frutto di un rapporto malato con un padre tutt’altro che affettuoso. E Ang Lee lo fa come se gestisse un film d’autore e non un film d’azione, ingranando la quarta sull’introspezione.
Il mio incontro con “Beasts of Burden” è avvenuto per caso, scrollando la dash di Tumblr. Un blog che seguivo aveva infatti rebloggato l’estratto di una storia breve dal volume “Hunters and Gathers”, “The view from the hill” e ne sono rimasta subito conquistata. Non solo perché BoB aveva tutto quello che trovo affascinante in un fumetto, ovvero l’ambientazione bucolica, un mistero da risolvere, l’ombra di forze occulte all’opera, lo shock di una rivelazione che rende il finale amaro e terrorizzante – quel misto di thriller e horror che ti fa intravedere cose brutte, sì, ma senza entrare nel dettaglio morboso dello splatter. Oltre al fantasy, all’horror e al giallo questa serie irregolare presenta una particolarità: i suoi protagonisti sono tutti cani. E un gatto.
Eh beh, che v’aspettavate, che vi dicessi che era brutto? Nausicaä è meraviglioso, ha quell’aura anni Ottanta che anche noi, nati alla fine di quel decennio, ci sentiamo prendere dal groppo brutto di nostalgia di epoche mai davvero vissute. È così bello che mi arrabbio doppiamente perché solo tre giorni al cinema è una bestemmia. A undici euro poi. Sì, bla bla bla, le leggi del mercato, bla bla bla, ringrazia che almeno è passato al cinema, bla bla bla, le sale cinematografiche in Italia funzionano così, bla bla bla, insomma, l’ennesima riprova che il mondo fa schifo.
Il film è tutto da ridere. Scorre via fresco, leggero, senza intoppi, alterna siparietti comici a inseguimenti concitati, senza dimenticare rivolgimenti di trama sempre più intricati e persino qualche opportuno tocco di dramma qua e là. Della storia personale di Napoleon, Illya e Gabi vediamo sprazzi, che emergono dalle parole con cui si confidano agli altri, dalle notizie che raccoglie chi li spia; tutti e tre hanno qualcosa – nel loro presente o nel loro passato – di grave e triste che li ha costretti a diventare spie improvvisate e un po’ pasticcione e che dà ragione di certe loro piccole manie, apparentemente molto comiche.
“La Resurrezione di ‘F’” promette tante cose, molte più di “Battle of Gods”, che era stato lo strombazzatissimo ritorno al cinema della serie di “Dragon Ball” e aveva poi fatto da rilancio per la nuova, ennesima serie filler che munge ancora dalla grassa vacca che è stata la fortunata serie degli anni Ottanta (sia anime che manga). Il problema è che, nel frattempo, la qualità dell’animazione e delle sceneggiature è peggiorata. Se, nel primo caso, si tratta di un problema sistemico a tutta l’industria dell’animazione giapponese contemporanea; il secondo è frutto di pura pigrizia da parte di sceneggiatori e produttori che sanno quanto vasto e affezionato sia il fandom e soprattutto quanto i nostalgici siano pronti ad affollare le sale per rivivere i ricordi della loro infanzia.
Penso che fosse da parecchio che non vedevo un prodotto rivolto ai bambini destare sentimenti tanto violenti e contrastanti nel pubblico di adulti che infestano tutti i mezzi di comunicazione a più livelli. Più o meno dai tempi in cui si diceva che “Sailor Moon” avrebbe fatto diventare tutte le bambine delle travestite e “Dragon Ball” avrebbe trasformato i bambini in assassini seriali.
Da alcuni anni Tunué cura una collana di saggistica, “Lapilli”, che fra le altre cose si occupa anche di esplorare il fenomeno dei manga e degli anime. Essendone io tanto appassionata da averci fatto sopra una tesi di laurea, ho usato più di un libro dei Lapilli per la mia ricerca e, fra questi, c’era “Con gli occhi a mandorla – Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti”.
Confesso che ciò che mi ha attirato verso la lettura è stato, prima di tutto, il fatto che Takeshi Obata avesse curato i disegni, oltre al fatto che la trama del film mi avesse appassionato parecchio. Ho constatato con piacevole stupore che, però, i fatti narrati in “All you need is kill” (che è di genere seinen quindi più adulto della media dei manga shounen a cui siamo abituati, quando pensiamo ai fumetti di combattimento giapponesi) erano parecchio più pesanti di quelli del film né che il lieto fine a tutti i costi era assicurato.