GENNAIO 2025

Buon anno a voi e benvenut3 in un 2025 che si prospetta, per quanto mi riguarda, ricco di riscoperte passate ma tenendo un occhio anche a quello che uscirà nei prossimi mesi – non solo al cinema e non solo in ambito occidentale e giapponese.

Gennaio è stato un mese lungo e ricco di spunti, complice anche la visione di due film molto diversi che si trascinano dietro polemiche legate alla loro lavorazione e alle loro scelte artistiche. In coda un po’ di consigli di lettura.

Bando agli indugi e andiamo a incominciare questa rassegna del mese dal mio Canale Telegram~!

[🧵] IL SIGNORE DEGLI ANELLI: LA GUERRA DEI ROHIRRIM (2024) | LA FRETTA È CATTIVA CONSIGLIERA

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Ieri sono stata al cinema a vedere il primo adattamento animato in stile anime di una storia ambientata nel mondo della Terra di Mezzo: “Il Signore degli Anelli: La Guerra dei Rohirrim“.

Mettiamo subito le mani avanti: chi vi scrive si è molto ma molto divertita a vedere questo film. È un fantasy avventuroso nella sua versione più semplice e tradizionale, che conta molto sull’effetto nostalgia per attirare spettator3 in sala – e infatti si ispira visivamente e musicalmente alla trilogia di Peter Jackson, che resta a tutt’oggi con alcuni limiti la trasposizione più fedele e meglio orchestrata sullo schermo dell’opera tolkeniana.

Devo confessare che questo escamotage ha avuto successo, perché una nostalgica innamorata di quei film come me si è sentita come se fosse “tornata a casa”, quando si è trovata davanti i panorami di questo lungometraggio e ha ascoltato la colonna sonora che accompagnava le gesta della sua protagonista: Héra Mandimartello, figlia del più celebre Helm Mandimartello (sì, proprio quello che ha dato il nome al Fosso di Helm).

Héra, per ammissione stessa della sua doppiatrice inglese (Gaia Wise), è ispirata a Nausicaä della Valle del vento – difatti, a differenza dei fratelli biondissimi, sfoggia una capigliatura rossissima ed è una principessa ribelle, che preferisce l’avventura e l’amicizia con le Grandi Aquile alle gioie dei matrimoni combinati. Héra non esiste nel canone tolkeniano o, per meglio dire, non conosciamo il suo nome.

Il Signore degli Anelli: La Guerra dei Rohirrim” trae infatti ispirazione da una vicenda narrata da J.R.R. Tolkien nell’Appendice A della sua trilogia: è la storia di Helm Mandimartello e i suoi due figli, Haleth e Háma. Helm ha anche una figlia, di cui il Professore non ci svela il nome, e la cui mano viene chiesta da Freca per suo figlio Wulf. Helm rifiuta e sfida Freca in un combattimento a mani nude – uccidendolo e bandendo suo figlio Wulf dalle terre di Rohan. Quattro anni dopo, nel 2578 T.E. (Terza Era), Wulf ritorna a capo di un esercito di Dunlandiani, conquistando Edoras e costringendo il re Helm e i suoi due figli a rifugiarsi al Trombatorrione (Borgocorno, nella nuova traduzione italiana utilizzata anche nell’adattamento del film ma che io non gradisco particolarmente). Dopo un assedio durato un lungo e durissimo inverno, quel luogo prenderà il nome di Fosso di Helm.

Le vicende del lungometraggio seguono abbastanza fedelmente il breve resoconto fatto da Tolkien di questa storia ma con un colpo di scena: a essere protagonista assoluta della storia è proprio l’innominata figlia di Helm, chiesta in sposa da Freca, che nel film è stata ribattezzata Héra. Héra non è ispirata soltanto a Nausicaä ma anche a Æthelflæd, Signora di Mercia dal 911 al 918 d.C., e alla stessa Éowyn, che fa da voce narrante nel film e da cui riprende le caratteristiche di una valchiria. Non per nulla nel lungometraggio viene nominata anche un’unità ormai dimenticata di valorose guerriere che hanno protetto i confini delle Terre di Rohan: “Le fanciulle dello scudo”.

Le connessioni all’opera tolkeniana sono molteplici e rispettose – non solo si percepisce una certa reverenza verso il materiale di riferimento ma si avverte anche la mano di Philippa Boyens, che aveva lavorato alla sceneggiatura della trilogia di Jackson. Ovviamente l’estetica e i trope del fantasy epico si intrecciano con quelli dell’animazione giapponese. Al timone c’è Kenji Kamiyama (già regista di “Ghost in the Shell: Stand Alone Complex“), che per Warner Bros. nel 2022 aveva diretto la serie animata “Blade Runner: Black Lotus“.

Il film di per sé non ha particolari guizzi di complessità e non ha altre pretese se non quella di raccontare una storia epica: si focalizza sui mali che la guerra porta con sé piuttosto che su esaltanti scontri in campo aperto e ruota intorno alle tematiche della vendetta, delle scelte e delle conseguenze che esse generano. Come ho già detto, io mi sono molto divertita e ho molto apprezzato questa protagonista “nausicaäna”, che forse non brilla per originalità ma è coerente, ha un percorso eroico lineare ed è a suo modo affascinante e determinata, senza scimmiottare stereotipi machisti dai muscoli gonfi e la profondità emotiva di una pozzanghera.

Se fosse tutto qui, consiglierei questo film a qualunque fan di Tolkien e/o amante del fantasy volesse trascorrere un bel pomeriggio al cinema. Tuttavia, questo film ha un grave difetto. L’animazione. Qualche anno fa sul mio profilo Instagram ho parlato della “guerra all’animazione” che Discovery sta portando avanti e che si è aggravata da quando il suo CEO, David Zaslav, ha assorbito Warner Bros. nel gruppo Discovery e ha deciso di favorire la produzione di programmi in real time e di distruggere il lavoro di interi team di animazione solo per risparmiare qualche milione di tasse (ha poi perso svariati miliardi per compiere questo giochetto). Questo film di animazione è arrivato in un momento in cui New Line e Warner Bros. stavano per perdere i diritti sulle opere di Tolkien – e proprio mentre Amazon trasmette su Prime Video la serie “Gli Anelli del Potere“, anch’essa preoccupata di riempire solo i “buchi” di narrazione fra un’era e l’altra che si trovano all’interno dell’immenso corpus tolkeniano, per non doversi confrontare direttamente con le storie effettivamente narrate.

Il problema? Per restare nei tempi Warner Bros. ha imposto allo studio di animazione che si è occupato di questo lungometraggio, Sola Entertainment, tempi di produzione strettissimi. Stando alle parole di Joseph Chou, produttore che ha lavorato e lavora con Kenji Kamiyama, per la realizzazione di un film del genere secondo gli standard dell’animazione giapponese ci vorrebbero dai cinque ai sette anni di lavorazione. Per “Il Signore degli Anelli: La Guerra dei Rohirrim” ne sono stati concessi solo tre. Kenji Kamiyama ne è stato l’unico regista, senza direttor3 dell’animazione che lo affiancassero nella realizzazione delle singole scene. Mentre normalmente il personale addetto a pulire e correggere le singole inquadrature avrebbe contato almeno 40 professionisti, per questo lavoro ne sono stat3 disponibil3 soltanto 2.

E il ricorso a ben 60 studi di animazione (fra cui MAPPA e Production I.G.) per completare tutte le animazioni ha sottolineato con ancora più nettezza come ci sia una gravissima mancanza – già molto denunciata negli ultimi anni – di professionisti nel campo dell’animazione giapponese. Un campo durissimo, in cui i guadagni sono scarsi, le ore di lavoro eccessive e la possibilità di morire letteralmente seduti alla scrivania tutt’altro che remota. Per velocizzare la produzione si è fatto ricorso anche alla motion capture in 3D dei movimenti dell3 attor3, che è stata poi letteralmente ricalcata dai singoli animatori per riuscire a terminare in tempo tutte le sequenze.

Il risultato finale è, purtroppo, un lungometraggio fatto di animazioni a scatti, artificiose, palesemente ricopiate da movimenti reali. Un lungometraggio che di quando in quando perde forza e ritmo narrativo e dove, per contrasto, le poche sequenze animate tradizionalmente risaltano in maniera vistosa rispetto alla qualità media del prodotto: ne è un esempio la sequenza del duello finale fra Wulf e Héra. Non sarà eccezionale, ma è coinvolgente e sicuramente superiore alle altre scene del film. Soprattutto mostra un barlume di quello che “La Guerra dei Rohirrim” avrebbe potuto essere, se solo Warner Bros. avesse concesso allo studio di animazione tempo e finanziamenti adeguati per confezionare un lavoro di buona qualità.

È un peccato e una grandissima occasione sprecata: prima di tutto perché, come ci tengo a ripetere, la storia di questa principessa dei Rohirrim che combatte contro un pretendente vendicativo e per difendere il suo popolo è tutto sommato molto carina e intrattiene bene. E poi perché, dopo anni, l’animazione 2D, così frettolosamente abbandonata da Disney e sodali per approdare ai lidi del 3D, avrebbe potuto avere una nuova possibilità di brillare in un progetto per un blockbuster. Non ci aspettavamo niente di meno, purtroppo, dalla Warner Bros. Discovery di Zaslav.

Conserverò nel cuore questo film, che per una tolkeniana di ferro come me è stato comunque una visione graditissima. Mettendo da parte le emozioni da spettatrice, tuttavia, non posso non rilevare che questo lungometraggio ha messo ancora più in luce tutte le storture di un mercato dell’intrattenimento sempre più piagato da investitor3 che hanno fretta di fare margini. Così tanta fretta che il film negli USA dopo appena due settimane è già approdato su qualsiasi piattaforma avesse accordi per trasmetterlo. Siamo alla morte del cinema e dell’arte. Così non va. Non va assolutamente.

Che gran peccato. Se volete sapere di più sulle condizioni di lavoro a cui è stato sottoposto Kamiyama, potete leggere questa intervista.

[📷] CONSIGLI DI VISIONE: I AM WHAT I AM (2021)

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Due mesi fa Tiger Pictures Entertainment ha pubblicato gratuitamente su YouTube per il pubblico estero “I Am What I Am“, film di animazione cinese distribuito in Cina il 17 dicembre 2021 da Beijing Splendid Culture & Entertainment Co., Ltd e diretto dal regista Sun Haipeng.

I Am What I Am“, in patria conosciuto come “Male Lion Boy” è ambientato nella provincia del Guangdong e narra la storia di Gyun, un ragazzino lasciato a vivere nella campagna insieme al nonno, mentre i genitori lavorano nella capitale della provincia, Guangzhou, nel tentativo di racimolare abbastanza soldi per permettere al figlio di andare all’università, una volta finito il liceo. L’incontro con una ragazza, vincitrice di un concorso di danza del leone – un tipo di danza tradizionale cinese – lo spingerà a cercare di più dalla vita. Insieme agli amici Mao e Gou si iscriverà a un torneo di danza del leone e, sotto la guida del maestro Qiang, sfiderà le squadre rivali nel tentativo quasi impossibile di vincere.

Una delle particolarità che più mi ha colpito di questo film d’animazione è la scelta del luogo, del tempo storico e dell’estrazione sociale dei protagonisti. In controtendenza con le scelte del cinema d’animazione cinese dell’ultimo periodo, “I Am What I Am” è ambientato nel presente nella poverissima campagna cinese – quella non toccata dal “miracolo economico” che ha investito il paese – e, pur presentandosi come una classica storia di riscatto attraverso lo sport, sceglie di concentrarsi su tre ragazzini di bassa estrazione sociale e sulle difficoltà che incontrano in un contesto che offre loro ben poche opportunità, fuori da lavori spesso sfiancanti, mal pagati, pericolosi e per nulla tutelati.

E difatti la realtà irromperà prepotentemente sulla scena, dando una svolta drammatica che spezzerà i toni comici della prima parte del lungometraggio, ma non vi anticipo nient’altro. Credo che valga la pena di dare una possibilità a questa storia, che per il pubblico internazionale presenta i sottotitoli in inglese. Non solo per una storia realistica e avvincente, che apre una finestra sulla cultura e la società cinese a un pubblico straniero, ma anche per lo stile di animazione e per una CGI che accompagna con affascinante destrezza le evoluzioni spericolate dei danzatori e che insegue, nel suo character design, lo stesso realismo perseguito dalla trama.

A tal proposito, pur avendo totalizzato altissimi punteggi di gradimento da parte del pubblico in patria e aver ottenuto un buon incasso per un film indipendente, “I Am What I Am” ha ricevuto alcune critiche da parte del pubblico cinese proprio per le sue scelte di character design. Gyun, Mao e Gou, così come gli altri personaggi della storia, presentano occhi piccoli e allungati – secondo le critiche una scelta che ricordava le rappresentazioni razziste del popolo cinese da parte degli occidentali in tempi non troppo lontani. Il regista Sun Haipeng ha invece rivendicato questa decisione, spiegando di aver voluto andare in controtendenza rispetto all’estetica dei lungometraggi di animazione in 3D occidentali e giapponesi, che tendono a rappresentare i personaggi con occhi molto grandi – una tendenza assimilata dall’industria dell’animazione cinese e da lui considerata poco realistica e molto occidentale.

I Am What I Am” è, insomma, un lungometraggio più complesso di quello che può sembrare in superficie, nonostante una trama apparentemente lineare. E con una colonna sonora di tutto rispetto che ben accompagna le acrobazie impossibili dei danzatori. Buona visione a chi vorrà addentrarsi in questa storia!

[📚] CONSIGLI DI LETTURA: CRONACHE DELL’AVATAR. L’ASCESA DI KYOSHI (2019)

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Da quando l’ho vista comparire nei racconti che venivano trasmessi su di lei in “Avatar: The Last Airbender“, Kyoshi è sempre stata l’Avatar su cui avrei voluto sapere di più. Non posso che ringraziare sentitamente questo romanzo per esistere – e non vedo l’ora di leggerne il seguito.

Kyoshi, come tutti gli Avatar prima e soprattutto dopo di lei, deve affrontare delle prove nel suo percorso di crescita come ago della bilancia di tutte le contese – politiche e non solo – del suo mondo. Kyoshi ha una particolarità: non dovrebbe essere l’Avatar. All’inizio della sua storia è la serva – e la migliore amica – di quello che viene ritenuto l’Avatar del Regno della Terra, il giovane Yun.

“Viene ritenuto”, perché il processo per scovarlo è stato parziale e imperfetto, e perché Kyoshi è solo un’orfana, trattata come una paria dai suoi concittadini, e così maldestra da avere difficoltà persino a utilizzare il dominio della terra… o così sembra. Una imperizia che è colpa degli adulti che la circondano, a cominciare dai compagni dell’Avatar precedente, così ossessionati dall’idea di addestrare l’Avatar attuale, da lasciarsi obnubilare dai loro sensi di colpa e dalla loro sete di plasmare il mondo in cui vivono “nel modo giusto”.

E difatti la storia di Kyoshi, la sua crescita, i suoi errori – ne fa non pochi, perché è impulsiva e arrabbiata e priva di una vera guida – ruotano intorno alla ricerca del vero significato della “giustizia”. O per lo meno del significato che Kyoshi deciderà di fare proprio. Kyoshi è un’anomalia, non solo nel modo in cui viene prima ignorata e poi riscoperta come Avatar, ma anche nel suo aspetto: è altissima, imponente in un modo che incute soggezione nei suoi interlocutori. Ed è piena di forza, forza fisica e forza nel manipolare gli elementi.

Ho sempre apprezzato il fatto che la politica fosse un tema centrale nelle varie incarnazioni di “Avatar“, trattata con complessità pur riconoscendo che il pubblico di elezione di queste storie è formato prima di tutto da ragazzini. “L’ascesa di Kyoshi” non è da meno e indaga più in profondità negli equilibri precari all’interno di un territorio sconfinato e composito come quello del Regno della Terra: le sue contraddizioni; il classismo dei suoi abitanti; il rapporto fra il Re e i suoi saggi, divisi in correnti pronte a scannarsi anche e soprattutto per ottenere il controllo dell’Avatar – e, in modo traslato, dei rapporti di potere fra le varie nazioni.

Questo romanzo mi ha coinvolto molto, perché è riuscito a bilanciare in modo intelligente le parti dedicate all’azione con quelle dedicate alle disquisizioni politiche e con quelle dedicate alla crescita personale dei personaggi e alle loro relazioni. Perché le storie dell’Avatar sono anche le storie dei loro rapporti umani, delle loro amicizie e dei loro amori. Il percorso di Kyoshi è accidentato, perché ha un carattere non facile e perché deve la ricerca dei suoi compagni di viaggio è lunga e tormentosa. Non mancano le morti eccellenti, in questa storia. Ma al fianco di Kyoshi, fin dall’inizio, c’è Rangi – Dominatrice del fuoco determinata e autoritaria. Il modo in cui il rapporto fra loro cresce, si evolve, cambia è un altro aspetto di questo romanzo che ho molto apprezzato. Anche perché Kyoshi e Rangi sono due teste ugualmente calde ma anche due compagne innamorate e affiatatissime, nonostante le loro differenze di visione, anche sulle azioni che un Avatar dovrebbe intraprendere.

Non vedo l’ora di leggere la seconda parte e di scoprire come Kyoshi deciderà di interpretare il suo ruolo di Avatar – e quale tipo di giustizia deciderà di perseguire.

(RECENSIONE DISPONIBILE ANCHE SU GOODREADS)

[📜] ATTENTI A QUEL LINK

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👉 https://www.asahi.com/ajw/articles/15568014

A 3-meter-tall statue of Ryomen Sukuna, featuring two faces and multiple limbs, sits at the Nyukawa branch of the Takayama city government in Gifu Prefecture. The inscription explains that the 3-meter Ryomen Sukuna “traveled from Hida to Mino to demonstrate his prowess for the sake of his homeland” 1,600 years ago.

Un interessante articolo dell'”Asahi Shinbun“, disponibile in inglese, che racconta la figura di Ryoumen Sukuna. Molt3 lettor3 di manga lo conosono nel suo ruolo di antagonista principale in “Jujutsu Kaisen” ma questo articolo approfondisce la sua storia nel folklore giapponese e i motivi della sua reputazione controversa.

👉 https://www.youtube.com/live/vhfVvKvPCkc?si=5daZ6F_klPVB2dMp

Sabato 1° Febbraio alle ore 18:00 si è tenuto un nuovo appuntamento di “Chi ha visto il vento“, la rassegna di Mosby Italia sui film del maestro Miyazaki. Questa volta si è parlato di “Si alza il vento” e ad affiancare Andrea Tornese e Lorenzo Galasso c’è stato Isaia Silvano – fondatore, creatore e anima principale del sito Daelar Animation – una biblioteca online completamente gratuita dedicata al mondo dell’animazione globale.

È stata una chiacchierata molto lunga, anche più delle puntate precedenti, e non a torto: “Si alza il vento” è un’opera complessa, considerata il testamento artistico e umano di Hayao Miyazaki, ed è pertanto ricca di rimandi e riferimenti al mondo letterario – e Lorenzo lo ha ben dimostrato con la sua poderosa ricerca. Dall’altro lato non posso che lodare la lucidità e la calma con cui Isaia ne ha illustrato le ricchezze e le pecche, contestualizzando con precisione questo lungometraggio nel corpus miyazakiano.

Da segnalare, non al margine ma nel corso della discettazione, anche gli accenni che sono stati fatti all’attuale stato della critica giornalistica per quanto riguarda il mondo dell’animazione, soprattutto giapponese – Andrea e Isaia hanno ben individuato più di una problematica nel modo in cui i film di Miyazaki e non solo essi vengono raccontati e analizzati oggi. Puntata da recuperare assolutamente!


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