Novembre 2024
Come avrete notato, nell’ultimo anno la mia produzione sul blog è diventata molto discontinua.
Da quando ho aperto il mio canale Telegram, mi è capitato più di una volta di condividere i miei pensieri, anche piuttosto articolati, su argomenti di vario genere – da recensioni estemporanee di serie e film che ho visto a riflessioni sullo stato dell’industria dell’animazione, tanto per fare due esempi.
Non sono articoli completi da postare sul blog come tali ma sono comunque considerazioni abbastanza articolate. Non tutti i miei lettori seguono il mio canale Telegram e, dato il formato di quest’ultimo, può risultare scomodo ritrovarli scorrendo verso l’alto o leggerli spezzati in più messaggi.
Ho deciso di inaugurare una rubrica mensile, in cui raccoglierò gli interventi più significativi del canale per pubblicarli qui sul sito. Così voi potrete rintracciarli e consultarli con facilità e io non lascerò il sito a languire per mesi.
Si comincia con l’edizione di novembre 2024, un’edizione molto “miyazakiana” ma, per voi che mi conoscete, non è certo una novità!
Buona lettura!
[🧵] I RACCONTI DI TERRAMARE | IL FALLIMENTO DI MIYAZAKI? SÌ. HAYAO.
«Mio padre era un uomo grandioso. Io non sono niente. Ho deluso mio padre e ho deluso me stesso. Eppure sono pervaso da una rabbia che non posso controllare. È come se ci fosse qualcun altro dentro di me. Lo hai visto anche tu, uh? Avevi ragione. Non dovrei essere qui.»
Durante il documentario realizzato dalla NHK, che segue le orme di Hayao Miyazaki nel corso della lavorazione di “Ponyo della Scogliera” e “Si Alza il Vento“, il regista visiona l’opera prima di suo figlio, Goro Miyazaki, tratta dal “Ciclo di Terramare” di Ursula K. Le Guin – una delle più rinomate scrittrici di fantasy e fantascienza, nonché un punto di riferimento nell’immaginario dello stesso Hayao Miyazaki.
Nel corso della proiezione, il padre di Goro Miyazaki, pluripremiato artista e due volte vincitore di un Oscar per il Miglior Film di Animazione, lascia la sala indignato – lamentandosi che un regista non dovrebbe mai mettere le proprie emozioni in un film.
Nonostante il buon successo di pubblico, i critici e gli appassionati dello Studio Ghibli furono unanimi nel giudizio negativo, mentre la stessa Ursula K. Le Guin si disse delusa da questo adattamento, riconoscendo che non si trattasse più della sua storia ma della storia di Goro Miyazaki.
Negli anni molti fan e studiosi di animazione si sono divertiti nel tiro al piattello con “I Racconti di Terramare“, lamentando a più riprese che il figlio del più noto e talentuoso Miyazaki avrebbe commesso, nell’ordine, il grave peccato di sviscerare i suoi turbamenti all’interno della storia e di non restare fedele all’opera originale.
Tutti “peccati”, tuttavia, di cui si è macchiato non solo suo padre ma moltissimi artisti nel corso della storia – sia prima sia dopo il povero Goro. Che “I Racconti di Terramare” sia un film con degli evidenti problemi – come spesso accade alle opere prime – è un fatto che non metto in dubbio: il ritmo diseguale e singhiozzante; il troppo materiale dei libri di partenza che non viene adeguatamente sviluppato nel corso della narrazione; una confusione che si accorda bene al carattere del suo protagonista – un parricida sofferente, in fuga da se stesso e dalle responsabilità e le aspettative che gli sono state cucite addosso da altri.
E proprio per questo, a mio avviso, si tratta di un esperimento decisamente interessante. Ho sempre trovato “I Racconti di Terramare” una storia godibile, intrisa di molti cliché del fantasy di cappa e spada anni Ottanta. Lo trovavo godibile quando l’ho visto la prima volta, per caso, programmato di mattina presto su Rai 5. E l’ho trovato godibile anche dopo aver letto il “Ciclo di Terramare” e aver capito che Goro aveva pescato un po’ in giro fra i cinque libri che compongono la saga per raccontare, appunto, la sua storia.
La rabbia di Hayao Miyazaki di fronte a questo film è comprensibile ma non perché qui sia stata offesa l’arte del narrare o la decenza. Piuttosto perché Goro Miyazaki, un figlio con cui il maestro ha sempre interagito poco perché troppo impegnato a intrattenere i figli degli altri, gli ha sbattuto in faccia senza filtri i suoi sentimenti, a cominciare dalla sua rabbia.
L’Arren di Goro è un ragazzo rabbioso e depresso, che paradossalmente scappa dal lato “luminoso” di se stesso, perché non vede più alcun senso nella vita e sembra cercare la morte con masochismo suicida.
L’Arren di Goro ammazza suo padre e non conosce neanche lui bene il motivo- ma sa che dentro di sé cova una rabbia sconfinata, che non riesce a dominare.
L’Arren di Goro trova, in uno sconosciuto gentile e affidabile, la figura paterna che si prende cura di lui, a differenza di un padre regnante che, stando alle prime scene del film, dà priorità al proprio popolo rispetto alla propria famiglia.
L’Arren di Goro saltella da una citazione all’altra dei film di Hayao Miyazaki, citazioni che qualsiasi fan sfegatato dello Studio Ghibli può riconoscere agevolmente e che vengono completamente distorte dall’approccio registico di Goro. E sarà pur debole nel ritmo narrativo e nel dare consistenza ai personaggi che circondano Arren – che pure è un protagonista capace di esprimere in modo molto efficace il suo dolore e il suo sperdimento, fino a deformarsi e imbruttirsi ogni volta che rabbia e paura lo assalgono.
Goro è però assai più bravo – e in questo probabilmente lo soccorre la sua specializzazione in architettura paesaggistica – nel ricreare i luoghi e le atmosfere. Ne “I Racconti di Terramare” sono molto suggestive, a cavallo fra città levantine – la capitale di Enlad ricorda Costantinopoli – roccaforti medievali di gusto europeo e campagne umide e verdeggianti che richiamano le campagne gallesi. Su tutto domina un vento che spazza i prati ma soprattutto le masse d’acque, che in questo film ricorrono, increspandosi e distorcendosi, con grande frequenza e fanno da accompagnamento ai cambiamenti d’umore dei personaggi.
E tuttavia questo film, che resta come un guanto di sfida tirato in faccia al suo stesso padre, non è un fallimento di Goro – che ha fatto quello che hanno fatto altri registi prima di lui e ha seguito istanze diverse in un’opera che racconta i suoi turbamenti.
È piuttosto un fallimento di Hayao Miyazaki, regista straordinario, ma uomo fallimentare sia nel suo ruolo di padre biologico sia di padre artistico. Lo Studio Ghibli è stato ed è uno studio di animazione tanto prolifico nel creare opere filmiche quanto sterile nello sfornare futuri registi e visioni alternative a quelle del trio che gli ha conferito personalità e dato una direzione: Hayao Miyazaki stesso, Isao Takahata e Toshio Suzuki.
E “I Racconti di Terramare” è stata la prima avvisaglia di questo profondo fallimento. Nel confronto viene spesso lodato “La Collina dei Papaveri“, senza registrare, però, come la correttezza formale di questo lungometraggio sia bilanciata da una rigidità e una freddezza nell’esposizione che si ritrova anche ne “Arriety – Il mondo segreto sotto il pavimento“.
Entrambi i film scontano la presenza a dir poco opprimente proprio di Hayao Miyazaki, che ancora una volta impone la sua visione su quella dei registi a cui i lungometraggi sono stati affidati e li costringe a diventare null’altro che meri esecutori, studenti che “imparano a fare bene i compiti a casa”. Ovvero cercare di realizzare storie “come le farebbe Hayao Miyazaki”.
Non è un caso se, lasciato da solo, Hiromasa Yonebayashi abbia prodotto un film interessante ma altrettanto confuso come lo è stato “Quando C’era Marnie” e abbia dovuto abbandonare lo Studio Ghibli per realizzare la sua opera successiva.
E non è un caso se l’unico regista che aveva ottenuto il plauso di Miyazaki e Takahata, lo sfortunato Yoshifumi Kondo, sia morto dopo aver realizzato il suo primo e unico film da regista, “I Sospiri del Mio Cuore“, letteralmente ucciso dal sovraccarico di lavoro subito durante la sua partecipazione alla realizzazione di “Principessa Mononoke” – uno dei film che più amo e uno dei film che più ha logorato lo Studio Ghibli e soprattutto i suoi animatori.
Non è un caso nemmeno se la nuova generazione di registi di successo – primi fra tutti Mamoru Hosoda e Makoto Shinkai – sia cresciuta lontana dall’ombra lunga ma opprimente dello Studio Ghibli e se lo stesso Hosoda abbia dovuto migrare altrove, perché Miyazaki non gli ha permesso nemmeno di completare il film per cui lo aveva cercato – quel “Il Castello Errante di Howl” che non rispetta l’opera originale e ha problemi di coerenza interna, perché il suo regista aveva premura di infilare al suo interno i temi a lui cari.
E tutto questo nonostante Mamoru Hosoda stesso abbia riconosciuto che sono stati proprio i film di Miyazaki a spingerlo a diventare regista. Talenti crescono illuminati dalla luce dell’arte di Hayao Miyazaki ma mai troppo vicini al calore della sua personalità debordante, che rischierebbe di bruciarli.
È questo mio post un atto di accusa? Ho sempre stimato il lavoro del maestro ma trovo che sia sbagliato ignorare i suoi limiti di uomo e datore di lavoro – tremendo coi suoi sottoposti al punto da costringerli a tornare a lavorare durante le scosse di assestamento del terremoto che l’11 marzo del 2011 sconvolse il Giappone.
E ritengo che “I Racconti di Terramare” non solo, nel suo piccolo, sappia intrattenere un amante del fantasy con atmosfere cupe e protagonisti travagliati, ma che con esso Goro Miyazaki abbia raggiunto il suo scopo. Parlare a suo padre attraverso l’unico mezzo con cui ha comunicato con lui per anni: i film di animazione.
È un peccato che Hayao Miyazaki non si sia fermato ad ascoltare con attenzione, lasciandosi trascinare dalla sua indignazione e dai suoi sensi di colpa – il maestro non ha mai fatto mistero di sapere che la sua carriera è andata avanti, perché sua moglie – Akemi Ota, che era stata animatrice anche ne “La leggenda del serpente bianco” – ha rinunciato alla propria per allevare i loro due figli.
È un peccato, perché lo Studio Ghibli non sopravviverà alla sua dipartita o per lo meno non lo farà nella forma che conosciamo. E io non riesco a non pensare all’anziano prozio di Mahito che ne “Il Ragazzo e l’Airone“, offre il suo mondo fantastico a un giovane, pieno di energia e proiettato verso il futuro, che lo rigetta e lo fa cadere in pezzi, rifiutando così anche la sua eredità. Il futuro si è spostato altrove, lontano dallo Studio Ghibli, e la colpa non è certo di Goro Miyazaki. Che comunque i suoi animatori li ha trattati – stando alle loro stesse parole – decisamente meglio di quanto non abbia fatto suo padre.
[ 👁️ ] REVOLTOSO (2016)
L’uscita di giovedì 14 novembre di Animation Obsessive ha dedicato un lungo focus a un cortometraggio in stop motion di mezz’ora uscito nel 2016 in Messico. Io l’ho davvero apprezzato e per questo voglio consigliarvelo a mia volta!
“Revoltoso” è un’opera dei fratelli Arturo e Roy Ambriz per lo studio indipendente, da loro fondato, Cinema Fantasma. Cinema Fantasma è lo stesso studio di animazione che nel 2021 ha realizzato la serie “Frankelda’s Book of Spooks” e “Revoltoso” è l’opera che lo ha lanciato sulla scena dell’animazione messicana.
La storia si ambienta in Messico nel 1913 e ruota attorno ai primi vagiti della storia del cinema che si incrociano con la rivoluzione messicana ma vista attraverso gli occhi… di un piccolo cinghiale! Notevole è l’estetica di questo corto, ispirata al movimento cubista, soprattutto se si pensa che i fratelli Ambriz l’hanno realizzata nel corso di cinque anni con l’aiuto dei genitori e di una decina di animatori in una tensostruttura montata sul tetto della casa di famiglia.
Una curiosità: fra i finanziatori ufficiosi di questo lavoro ci sono Jorge R. Gutierrez (regista de “Il libro della vita“) e Guillermo del Toro – che dà un grande sostegno alla scena d’animazione (ricordiamo che proprio a Guadalajara sono state realizzate alcune importanti sequenze per il suo primo lavoro in stop motion, “Pinocchio“).
Buona visione~!
[ 👁️ ] HAYAO MIYAZAKI E L’AIRONE (2024)
Un aggettivo che non mi sarei aspettata di usare per descrivere il documentario sulla realizzazione de “Il Ragazzo e l’Airone” è: commovente. Anche il termine “documentario” è a suo modo limitato nel descrivere l’ultima fatica di Kaku Arakawa. Il regista è un “vecchio amico” di Hayao Miyazaki. Lo segue dai tempi della lavorazione di “Ponyo della scogliera” e su di lui ha realizzato altri due documentari: “Never-Ending Man Hayao Miyazaki” e “Miyazaki: 10 anni di magia“, entrambi portati in Italia.
Due documentari che, come quest’ultimo, assomigliano a dei diari di viaggio: una collezione di immagini, situazioni, scenari, dialoghi, confronti che restituiscono il mondo dentro la testa del maestro Miyazaki e intorno a lui. “Il Ragazzo e l’Airone” ha sicuramente questa qualità molto soggettiva e, guardandolo, sembra di sfogliare un album dei ricordi, fatto di cartoline in formato video invece che di foto.
Arakawa segue un percorso eminentemente emozionale, mentre annoda insieme brandelli delle scene delle opere di Miyazaki alle sue parole, ai suoi tic nervosi, alle persone che lo circondano, alle esperienze che ha vissuto, senza nascondere i lati meno piacevoli del maestro – artista straordinario ma uomo difficilissimo con cui lavorare, che fa fatica persino ad accettare di essere corretto dal suo direttore dell’animazione. Takeshi Honda. Honda – che ha lavorato alla serie e ai film di “Neon Genesis Evangelion” – sembra a tratti accompagnare per mano il pluripremiato regista da Oscar, che appare sempre più stanco e affaticato.
Sono lunghi, i sette anni della lavorazione de “Il Ragazzo e l’Airone” e sono quelli in cui Hayao Miyazaki comincia a sentire con sempre più nettezza il peso dell’età. Sente di avere “la testa rotta”, come viene ripetuto più volte nel corso del documentario. Non sono soltanto gli ottant’anni compiuti e superati a bussare alla porta ma anche l’effetto di più di sessant’anni chino sulla scrivania a disegnare e disegnare e disegnare e tormentarsi.
Sarebbe già commovente così, osservare il crepuscolo di un artista che si aggrappa con le unghie e con i denti alla sua arte e che continua a sfornare opere grandiose, pur piene di difetti e limiti; intense esperienze estetiche ed emotive che ancora catturano lo sguardo e fanno riflettere.
Quello che però rende questo diario di viaggio devastante, emotivamente parlando, è la vita. La vita che continua impietosa – c’è di mezzo anche la pandemia, che fa capolino attraverso le mascherine sui visi dei membri dello staff dello Studio Ghibli. La vita che se ne va e si porta via i più importanti compagni di viaggio di Hayao Miyazaki. Prima di tutto lui, Paku-san, Isao Takahata, che si spegne nell’aprile 2018 e lascia un vuoto così improvviso, che per un attimo la fontana dell’ispirazione del maestro pare prosciugarsi.
E poi un’altra storica, importantissima collaboratrice, Michiyo Yasuda, animatrice e color designer che ha lavorato con Miyazaki fin dai tempi di “Nausicaä del vento“. Le morti di altri importantissimi collaboratori e vecchi amici si susseguono, inaspettate, crudeli, strappando la maschera di un uomo che aveva promesso che non avrebbe pianto per la morte di Paku-san, e che invece si scioglie in lacrime durante i funerali del suo migliore amico e rivale. Come spettatori viviamo il tormento di un uomo che sta sopravvivendo a tutti quelli che credeva lo avrebbero superato, che si sente perseguitato dai loro fantasmi e dalle loro voci prepotenti che sussurrano dall’aldilà, primo fra tutti proprio Isao Takahata.
È colpa di Paku-san, è colpa delle parole di Yasuda-san, se Miyazaki deve continuare a disegnare gli storyboard di un film che esce a fatica dalle sue mani tremanti e sempre più incerte. Così si confessa il maestro davanti all’obiettivo di Arakawa ma, qualche scena più tardi, ammette di non saper fare altrimenti: tutta la sua esistenza inizia e finisce al tavolo da animatore. Se smettesse di sedervisi, non troverebbe più un senso a ciò che gli resta da vivere.
Isao Takahata diventa l’ossessione e il perno di un film che si rivela ancora di più un’opera intima, un’allegoria della vita – personale e lavorativa – di Hayao Miyazaki. Il maestro è Mahito, il Prozio è Paku-san, Kiriko è Michiyo Yasuda, l’airone cenerino è quell'”imbroglione” di Toshio Suzuki, lo storico produttore e fondatore dello Studio Ghibli, che a detta del regista lo costringe a fare cose che non vorrebbe fare.
A discapito di ciò che ha rimproverato al suo stesso figlio una manciata di anni prima, “Hayao Miyazaki e l’airone” è la conferma che Miyazaki mette nelle sue opere tutto se stesso e tutte le sue emozioni. Ne “Il Ragazzo e l’Airone” lo ha fatto più che mai, usando la sua arte per elaborare un lutto – una serie di lutti – devastante, che lo ha cambiato e ha visibilmente alterato la struttura stessa e le atmosfere del film.
“Hayao Miyazaki e l’airone” arriverà anche su piattaforma, molto probabilmente, ma resta nei cinema ancora per oggi. Se avete l’occasione di vederlo in sala, è un’esperienza che non posso che consigliarvi. Avrebbe meritato qualche schermo in più e qualche spettacolo in più – è davvero un tuffo, tormentoso, profondo e appassionato, nella mente “spaccata” di un artista segnato dalla vita più di quanto egli stesso non sia disposto ad ammettere.
Io, per parte mia, non ho potuto fare a meno di sorridere, quando – verso la fine del documentario, subito dopo l’uscita nei cinema giapponesi del film – viene mostrato il maestro chino sulla scrivania a colorare un’illustrazione di… Nausicaä, in piedi sulla spalla del soldato Titano.
Arakawa ci ha offerto, in fondo, una disamina compiuta delle ossessioni divoranti di Hayao Miyazaki e la principessa che sapeva parlare agli insetti si riconferma una delle più grandi. Quella che lo accompagna da tutta una vita.
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