Viaggio a Occidente alla ricerca dei semi della vita
[…] Il tema del viaggio a occidente del principe trova riscontro nella verità storica. Tuttavia sarebbe opportuno considerare tale leggenda una pregevole storia intrisa della gratitudine del popolo tibetano verso i prodotti della terra, piuttosto che un fatto realmente accaduto.
(Hayao Miyazaki, Postfazione a Il viaggio di Shuna, 1983)
Una sensazione piuttosto diffusa nel pubblico che ha riempito le sale dei cinema internazionali, per assistere all’ultima fatica di Hayao Miyazaki – Il Ragazzo e l’Airone – ha riguardato i toni cupi, a dir poco gotici del lungometraggio. Si è detto che mai si è visto in un film del maestro tanta oscurità, tanto mistero, persino tanta amarezza. Se questo non è del tutto vero neanche per le opere animate precedenti (basti pensare a Principessa Mononoke e Si Alza il Vento, per ritrovare in uno la crudezza e nell’altro la rassegnazione), lo è ancor meno per le sue storie a fumetti.
Nella stesura più che decennale della sua Nausicaä della Valle del vento Miyazaki aveva riversato le sue angosce, il suo pessimismo sempre più incalzante. Non è solo nella storia della principessa che amava gli insetti che dominano panorami desertici, sterili e desolati, che fanno a pugni con i prati verdissimi e le foreste rugiadose e brulicanti di vita dei film dello Studio Ghibli. Prima e contemporaneamente alla stesura del suo manga più complesso e corposo, il maestro si era infatti dedicato ad altri due fumetti autoconclusivi: Sabaku no Tami (“Gente del Deserto”, mai pubblicato in Italia) serializzato fra il 1969 e il 1970; Shuna no Tabi (“Il viaggio di Shuna”), pubblicato nel 1983 per i tipi di Animage Juju Bunko.
Non si può parlare de Il viaggio di Shuna senza partire da Sabaku no Tami e Nausicaä della Valle del vento. Non solo perché i temi cari a Miyazaki in queste tre opere si sovrappongono e si intrecciano con forza, ma anche perché gli splendidi acquerelli di cui è composta questa storia – che più che un manga, è un libro illustrato nel formato bunko – sono una tappa importante dell’evoluzione stilistica del regista nelle sue vesti di fumettista.
Dalla gente del deserto ai principi delle steppe
Oltretutto, se vogliamo parlare di influenze, nel mio caso sono praticamente innumerevoli. Sono stato influenzato dalla tradizione che scorreva da aziende come Nihon Dōgasha e Toei Animation, così come dalle idee di Sanpei Shirato nel suo manga dell’epoca. Difatti, quando ero uno studente delle elementari, a un certo punto ero molto più affascinato da Tetsuji Fukushima, che aveva disegnato Sabaku no Maō (“Il diavolo del deserto”) di quanto lo fossi da Tezuka.
(Hayao Miyazaki, Starting Point: 1979-1996, 1996)
A chi gli chiedeva quanto avesse pesato il lavoro di Osamu Tezuka sulla sua ispirazione, Hayao Miyazaki rispondeva così in un’eulogia funebre, scritta nel 1989 alla morte di colui che ancora oggi è conosciuto in Giappone come il “dio dei manga”. È pur vero che la profonda e drammatica vena tragica che scorreva nelle opere di Tezuka aveva avuto un forte impatto sul bambino che Miyazaki era stato fra la seconda metà degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta, come il maestro stesso ammette qualche rigo più sopra in quella stessa eulogia.
Sabaku no Mao ha un’impostazione grafica molto più vicina al fumetto d’avventura statunitense degli anni Quaranta, che sicuramente aveva influenzato lo stile di Miyazaki. Anche il gusto per la tragedia, i toni apocalittici e la presenza pervasiva della morte, però, che sono parte non solo dell’opera di Tezuka ma anche di quella di molti mangaka al lavoro nel secondo dopoguerra, sono leitmotiv importanti nella prima opera serializzata del maestro.
Sabaku no Tami viene pubblicato a puntate fra settembre 1969 e marzo 1970 sulla rivista Shōnen Shōjo Shinbun per un totale di ventisei episodi. Il maestro non si firmò col suo vero nome in questo caso ma usò lo pseudonimo di Saburō Akitsu. Pur trattandosi di un racconto illustrato diretto a un pubblico di bambini, i suoi toni sono cupi, drammatici, né Miyazaki fa nulla per mascherare non solo la crudezza della guerra ma anche i suoi più spiacevoli effetti collaterali – dalla schiavitù alla morte di donne e bambini, sacrificati come merce di scambio per ricattare i soldati, costretti a combattere contro membri delle loro stesse tribù.
Protagonista di Sabaku no Tami è il giovane Tem, un pastore della tribù dei Soqute. I Soqute vivono nelle steppe dell’Asia Centrale e subiscono spesso le scorrerie del popolo nomade e bellicoso dei Kittarl, costantemente affamato di conquiste, che preferisce depredare le altre popolazioni, piuttosto che provvedere in autonomia al proprio sostentamento. L’evento scatenante della storia è l’arrivo di uno straniero, inseguito proprio dai Kittarl, fra le tende dei Soqute. Il padre di Tem perirà per mano degli invasori, nel tentativo di difenderlo, mentre lo straniero si rivelerà per il giovane Tem un maestro – sia di vita sia di combattimento – e lo guiderà attraverso il deserto, lontano dalla sua tribù.
Se già questo spunto ricorda al lettore alcuni passaggi di Nausicaä, lo stesso vale per il Viaggio di Shuna, dove pure il viaggio del protagonista viene scatenato dall’arrivo di uno sconosciuto – in questo caso in fin di vita – che rivela la presenza di un mondo esterno molto più ricco e brulicante di vita di quanto le steppe desertiche non lascino trasparire. C’è da aggiungere che una delle città a cui Tem approda, durante il suo viaggio, si chiama Pejite, anch’essa assediata dal nemico come l’omonima cittadella presente nel mondo della principessa della Valle del vento.
Sabaku no Tami, come Il viaggio di Shuna, è ambientato nell’Asia Centrale. Della collocazione di Nausicaä nulla si può accertare, essendo ambientata in un immaginario futuro distopico, ma luoghi e panorami sembrano molto vicini a quelli dell’Asia Centrale, soprattutto delle zone a cavallo del Caucaso, fra il Mar Nero e il Mar Caspio. I mercanti di schiavi, che in cambio di denaro non esitano a commerciare anche in bambini, sono una presenza ricorrente in entrambe le opere – e d’altronde anche l’aggressivo regno di Tolmekia in Nausicaä schiavizza e deporta nel corso della sua campagna di conquista dei vicini più o meno riottosi.
In modo non dissimile da Nausicaä della Valle del vento, anche Il viaggio di Shuna nasce da un’occasione e da un rifiuto. Il rifiuto è quello che Miyazaki riceve, quando prova a proporre un adattamento della favola tibetana Il principe che divenne cane, giudicato troppo “semplice” per gli standard del mercato dell’animazione giapponese. L’occasione è quella che la rivista Animage della casa editrice Tokuma Shoten offre al maestro: potrà tradurre in immagini quest’idea che avrebbe voluto poi proporre al mercato cinese – un’intenzione che resterà lettera morta.
Era già successo nel febbraio del 1982 con Nausicaä: una storia che Hayao Miyazaki avrebbe voluto restasse immobile su carta, immortalata solo dalle sue matite, e che invece proprio nel periodo in cui Shuna viene acquerellato, si sta traducendo su fogli di acetato per diventare il film che avrebbe dato origine allo Studio Ghibli.
Minimo comune denominatore di tutte e tre le opere, però, ancor più di Tezuka e di Fujimoto, è il primo lungometraggio a cui Hayao Miyazaki ha lavorato, sotto la direzione dell’amico di una vita Isao Takahata, quando erano entrambi in forze alla Toei Doga: La grande avventura del piccolo principe Valiant (Taiyō no ōji – Horusu no daibōken, in originale “Il principe del sole – La grande avventura di Hols”). Quello sul piccolo Hols era stato un film difficile, per il duo Takahata-Miyazaki. Difficile perché in un’epoca in cui l’animazione era, anche in Giappone, ancora considerata affare solo per bambini, Takahata aveva introdotto atmosfere cupe, dramma e una complessità non scontata dei suoi personaggi.
La morte di una figura di riferimento che dà inizio al viaggio del (o della) protagonista; un male oscuro che opprime la vita quotidiana di una piccola comunità, attaccando dall’esterno e insinuandosi al suo interno col seme amaro della zizzania; il viaggio da intraprendere spesso per svelare misteri fondamentali nella risoluzione della trama sono solo alcuni dei temi che ritornano prepotentemente e non solo in Sabaku no Tami, Nausicaä e in Shuna. Molto di ciò che era in germe in Hols verrà da Miyazaki pienamente sviluppato in Conan, ragazzo del futuro, prima ancora che in tutta la sua futura produzione cinematografica.
Vi è di certo che a leggere Sabaku no Tami si avverte ancora prepotente l’influenza del film su Hols, uscito al cinema nel 1968 – appena un anno prima che Miyazaki iniziasse la serializzazione di quel suo primo racconto illustrato. E quell’influenza, come un fiume carsico, torna prepotente a farsi sentire nelle vicende della principessa della Valle del vento e anche nel viaggio di Shuna.
Sabaku no Tami e Nausicaä della Valle del vento sono tuttavia nello stile molto più vicini al manga di quanto non lo sia Il viaggio di Shuna. Le tavole di Sabaku no Tami mostrano un’evoluzione, a partire specialmente dal decimo capitolo, da grandi vignette spaziose affiancate da corpose didascalie a quadrati sempre più piccoli e affollati – di personaggi, azioni, oggetti, edifici. Una sovrabbondanza di particolari e un ritmo incalzante che si sono poi tradotti nelle tavole di Nausicaä, che hanno molto più spazio per svilupparsi dato l’inusuale formato A4, ma che ricordano molto da vicino il fumetto occidentale – specialmente quello di Moebius e dei fumettisti di Metal Hurlant – e in cui spesso i personaggi scompaiono, quasi fagocitati dalla ricchezza di dettagli dello sfondo.
Il respiro stilistico e il ritmo narrativo de Il viaggio di Shuna sono decisamente più ampi, più rilassati, fosse perché a dominare è l’impostazione da libro illustrato o fosse perché è il tema stesso del viaggio attraverso un mondo misterioso, vasto e inframmezzato da desolanti solitudini, a richiedere un cambio di passo.
Viaggiando fra le dune una pennellata dopo l’altra
Quella di Shuna è, per l’appunto, la storia di un principe di un poverissimo regno, in cui un giorno capita uno straniero morente. Quello straniero affida a Shuna dei semi ormai morti e un segreto. Lontano, verso Occidente, esiste una terra fertile in cui quei semi crescono in messi dorate e rigogliose. Shuna decide allora di intraprendere un viaggio, contro il parere degli anziani del villaggio e di suo padre, di cui un giorno erediterà il regno, per trovare questa misteriosa pianta che potrebbe risolvere la fame che affligge da sempre le loro terre desolate.
Shuna, che nell’aspetto ricorda il giovane Ashitaka di Principessa Mononoke, come quest’ultimo cavalca uno stambecco, che nel racconto viene chiamato “yakkul”. Il suo viaggio verso ovest è costellato di difficoltà. Non solo incontri terrificanti con demoni del deserto, ma anche le avversità degli elementi naturali, la scarsezza di cibo e acqua e poi, naturalmente, i mercanti: di provviste e di schiavi, ma tutti intenti a rapinare e depredare. Il mondo in cui Shuna si muove è un mondo decadente e arrugginito, dove al rosso ferroso del deserto inaridito si contrappone l’azzurro vivido e accecante di un cielo sempre impietosamente sereno.
La città murata dalle alte torri e dai tetti coloratissimi, in cui il giovane principe fa tappa all’inizio della sua avventura, sembra ricordare nell’affastellamento di bancarelle, edifici, sabbia polverosa, umanità disperata e rapaci oppressori non solo la Pejite di Sabaku no Tami ma anche la Bartertown di Mad Max – Oltre la sfera del tuono, altro gioiellino del filone post-apocalittico anni Ottanta.
Non mancano però gli alleati o presunti tali, come l’enigmatico vecchietto – che ricorda da vicino il ben più ambiguo bonzo Jiko – che spinge Shuna a continuare verso Occidente, fino a raggiungere la terra promessa, abitata da enigmatici e ostili Esseri Divini, che hanno acquisito il monopolio sulla vita che fiorisce dalla terra e a cui gli uomini, in cambio di semi ormai morti, vendono i loro simili. Più Shuna si spinge a ovest e più i luoghi che attraversa si colorano di venature storiche, con le effigi delle divinità scolpite nella roccia che richiamano i monumentali Buddha di Bamiyan, e soprattutto fantasy. Nella terra abitata da queste divinità innominate fanno capolino fra le ombre gli scheletri immensi di draghi minacciosi; la luna è un disco che va a tramontare in una terra magica; il mare è un brodo primordiale di esseri preistorici provenienti da epoche ormai estinte; mentre misteriosi giganti d’erba solcano una terra che non appartiene più all’uomo.
Non manca neanche una bella e fiera co-protagonista, Thea, accompagnata da una sorella minore, entrambe rese schiave dai cacciatori di uomini e presto liberate proprio da Shuna. Se nell’aspetto Thea ricorda molto Nausicaä, nella sostanza è più vicina a personaggi come Lana e Sheeta. La sua forza è fatta più di passiva resilienza, sopportazione, pazienza e cura per gli altri, qualità tradizionalmente considerate femminili e che, seppur la rendono un personaggio ricco di dignità e fascino, fanno di lei niente più che una comprimaria.
Siamo lontani dalla dinamicità di Nausicaä e Kushana e dall’aggressività di San e Lady Eboshi che, seppure in modi diversi, propongono il modello di eroina attiva e padrona del proprio destino a cui ci ha abituato Miyazaki nelle sue opere successive. A Nausicaä, di cui il maestro sta animando le vicende in quegli stessi mesi, si avvicina molto di più il giovane principe Shuna, che come quest’ultima si scontra con una tremenda verità. La terra promessa, dove scorre latte e miele (in questo caso più prosaicamente crescono i “semi d’oro”) è una terra maledetta, proibita all’uomo.
Come il mondo purificato dal Mar Marcio non sarebbe stato lasciato agli umani come Nausicaä, condannati dalla loro stessa struttura fisica a sopravvivere solo in un ecosistema inquinato; così la “terra degli Esseri Divini” a cui approda Shuna è un giardino protetto e terribile, in cui una Natura accuratamente ingegnerizzata da terribili divinità regola ogni cosa, persino lo scorrere del tempo. Gli esseri umani possono avervi accesso solo al prezzo di perdere la loro umanità, più simili alle idre del principe Namuris che a esseri dotati di libero arbitrio.
La pubblicazione occidentale de Il viaggio di Shuna è stata accompagnata dallo stesso clamore e dallo stesso successo che hanno circondato l’uscita nei cinema de Il Ragazzo e l’Airone. Sia in Italia che negli Stati Uniti – dove era stato pubblicato nel 2022 in una edizione tradotta da Alex Dudok de Wit – questo volumetto spesso, compatto e colorato è schizzato immediatamente in testa alle classifiche al suo arrivo in libreria. Dall’altro lato dell’Atlantico ha persino vinto i prestigiosi Premi Eisner come “Migliore Edizione Statunitense di Materiale Internazionale – Asia” ed è stato anche nominato nella cinquina dei finalisti del Premio Harvey nella categoria “Miglior Manga” (poi vinta da Chainsaw Man di Tatsuki Fujimoto). Nel Vecchio Continente, invece, la storia di Shuna è stata selezionata fra i finalisti del Festival Internazionale del Fumetto di Angoulême per la categoria “Sélection Eco-Fauve Raja” (poi vinta da Frontier di Guillaume Singelin).
I più disincantati potrebbero dire che, come nel caso dell’ultimo lungometraggio del maestro, sia stata la sua fama, più che lo spessore dell’opera in questione, a meritargli questi riconoscimenti. Forse che sì, forse che no. Il viaggio di Shuna, pur essendo un progetto incompleto, è non soltanto una storia affascinante e tormentata ma da un punto di vista stilistico si presenta come una delizia per gli occhi – a tratti intenso, a tratti desolante, sempre molto suggestivo e immaginifico.
A dominare, come si diceva più su, sono sicuramente il rosso rugginoso della terra riarsa e l’azzurro vivido e impietoso del cielo sereno ma Miyazaki sa accompagnare a ogni mutamento climatico ed emozionale un cambiamento anche della sua tavolozza. E allora lì dove scende la notte i colori si fanno più spenti e soffusi, come velati di una patina grigiastra. Un grigio che si fa più intenso, quando i rigori dell’inverno e del vento tagliente del deserto spazzano le steppe. Lì dove invece è il senso imminente del pericolo ad aleggiare sul protagonista, sono le sfumature del nero a farsi avanti e invadere le tavole. Il verde della terra degli Esseri Divini, invece, è tanto squillante quanto spiazzante, quasi a comunicare l’artificialità di un luogo che solo superficialmente può essere scambiato per un paradiso – e non a caso nel suo aspetto ricorda le foreste del Mar Marcio, brulicanti di vita, sì, ma pericolosa per gli uomini.
I tratti della matita che delinea personaggi, animali, paesaggi, edifici e cose sono quelli morbidi a cui ci ha abituato Miyazaki in Nausicaä. Soprattutto, l’abilità con cui ogni tavola di Shuna è colorata è senza dubbio di altissimo livello. Nei primi anni Duemila il Museo Ghibli a Mitaka vendeva ai visitatori un set di acquerelli con un libretto di istruzioni. Questo libretto era stato illustrato da Miyazaki in persona, che aveva selezionato 24 blocchetti di colore e spiegava ai lettori come usarli. In quel piccolo manualetto il maestro si scherniva, sminuendo la sua stessa tecnica, ma a torto, perché dai suoi stessi consigli si può intuire ciò che in Shuna viene messo splendidamente in pratica.
Prima di tutto la leggerezza dei tocchi, che sfumano e si fanno leggeri fino a evocare l’illusione della luce, lì dove le scene vengono illuminate dai raggi del sole, delle stelle e della luna o da esplosioni improvvise. E poi l’uniformità della pennellata, mai eccessiva, mai caricata, che si sovrappone in più strati lì dove le figure prendono volume – cerchi, curve, masse tonde prevalgono in ogni tavola, non c’è mai spazio per gli spigoli e gli angoli acuti nel tratto di Miyazaki. E poi ci sono le sfumature, sempre molteplici; non c’è mai una contrapposizione netta fra masse di colore diverse ma sempre un compenetrarsi dei toni l’uno nell’altro, anche quando a opporsi è la linea dell’orizzonte sopra le distese del deserto.
E sono le sfumature, più ancora dei colori stessi, a dettare le atmosfere delle scene. È la gestione dei chiaroscuri – dall’allungarsi delle ombre alle esplosioni di luce alle patine crepuscolari fino ad arrivare ai panorami assolati – a trasmettere al lettore il senso incombente del pericolo, la gioia di una fatica ormai giunta al termine o lo stridere di un luogo magico con i segreti che nasconde al suo interno.
In definitiva Il viaggio di Shuna è un piccolo gioiello che sicuramente piacerà ai fan di Hayao Miyazaki, che vi ritroveranno temi e atmosfere familiari ma non troppo. È però anche uno di quei libri illustrati che possono interessare i lettori occasionali, offrendo loro un racconto che assomiglia a una fiaba e che, come le fiabe di un tempo, richiedono al protagonista e ai lettori di affrontare prove e tribolazioni, prima di giungere a una riconquistata serenità, per quanto precaria, per quanto mai completa.
E alla fine, proprio come al termine del viaggio di Nausicaä, anche per Shuna sembrano valere le stesse, identiche parole: per quanto la situazione sia difficile, dobbiamo sopravvivere.
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