Ganymedian Meltdown. Il Making Of

Benvenuti a Ganimede, terra di steppe, centrali nucleari e smilodonti

Erano vent’anni che abitava su quella luna e continuava a non abituarsi al suo clima, alla sua alternanza giorno-notte totalmente sballata e a quel freddo tanto onnipresente da attaccarsi permanentemente a ogni singolo osso del suo corpo e congelarlo, fino a renderlo fragile a sufficienza da spezzarsi al primo colpetto.
(Shi-Woo, pag. 498)

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Photo: Thomas Nilsen

Immaginate una distesa desolata di steppa brulla, dove alle chiazze mai sciolte di neve si susseguono solo bassi arbusti e rade foreste di conifere – macchie di verde spento sul bianco e grigio di un terreno freddo e arido. Voi state planando su quelle distese a volo d’uccello, come se fossimo in un film. Come in ogni film che si rispetti partono i titoli di testa.

“Life on Mars?” di David Bowie vi accompagna in questa planata su una landa che sembra completamente deserta, salvo le fronde degli abeti che fremono, quando gigantesche civette delle nevi spiccano il volo per andare a caccia. E poi la vedete, non più mimetizzata nel terreno brullo. Non un’orsa, non una tigre siberiana, ma uno smilodonte. Una tigre dai denti a sciabola, le lunghe zanne bianche che spuntano dalle fauci socchiuse, divora il terreno polveroso una zampata possente dopo l’altra.

Non siete sulla Terra al tempo dell’ultima glaciazione ma su Ganimede, la più grande luna di Giove, unico satellite del sistema solare dotato di un suo campo magnetico. L’anno è il 3230 d.C. e in questo futuro, in questa linea temporale, gli esseri umani hanno scoperto come terraformare pianeti e satelliti. Adesso insieme alla Terra, anche Venere, Marte e Ganimede sono abitati.

Ganimede è la colonia più lontana, più piccola e più fredda: una palla di neve dove il gelo uccide con estrema facilità e dove i 300.000 esseri umani che la popolano vivono stretti in un’unica città, Heosphoros. A Heosphoros politica ed economia coincidono, perché la legge la detta la Hecates Inc., che gestisce la sua centrale nucleare, unica fonte di energia, calore e vita per i ganimediani.

La centrale nucleare è la protagonista onnipresente di Ganymedian Meltdown. “Meltdown” è un termine che indica la fusione del nocciolo in una centrale, un grave incidente che in situazioni estreme può portare persino a un’incontrollata reazione nucleare. Perché il mio romanzo è nato all’indomani del disastro di Fukushima, l’11 marzo 2011, e di un film che con tempismo perfetto RaiTre trasmise all’epoca: Sindrome Cinese (1979). Prima ancora affonda le sue radici in un articolo di giornale, riportato nel mio libro di antologia delle scuole medie, sull’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986.

Lo scenario di un ipotetico e devastante incidente nucleare mi ha sempre affascinato – di quel fascino che nasce dal terrore. Soprattutto perché incidenti simili non accadono da soli: dietro si nasconde spesso incuria umana, approssimazione, aver privilegiato il risparmio alla sicurezza. Quest’ultimo è un problema annoso nella storia del progresso industriale umano e ci sarebbe materiale per intere saghe e documentari dedicati ai disastri ambientali provocati dal profitto e dalla rapacità di questo e quell’altro consiglio di amministrazione.

Prossima fermata, Heosphoros. Uscita lato: destro

Alexavier non era capace di farsi prendere dall’ansia. Aveva attraversato periodi della sua vita molto pesanti, fronteggiato più di una situazione di alta tensione senza versare neanche una goccia di sudore ma negli ultimi mesi la sua calma serafica era stata messa più di una volta a dura prova.
(Alexavier Nguyen, pag. 317)

A quel punto era fatta, no? Ovviamente no. Roma non è stata costruita in un giorno e un romanzo non si scrive in un mese – non un romanzo distopico, ambientato in un futuro alternativo, lungo settecento pagine. A quel punto sono cominciati i lunghi viaggi verso l’università sui vagoni scassati della Metro B romana, il lavorio del cervello che in sottofondo alla musica sparata negli auricolari produceva immagini – di neve, freddo, gelo, solitudine esasperata. A quel punto c’era il mondo fuori, abbandonato all’incuria più che mai, mentre la Grande Recessione seguita alla crisi dei subprime devastava l’economia e il mondo del lavoro. Certo, nessuno avrebbe mai immaginato che quasi undici anni dopo ci saremmo ritrovati qui, nella morsa di una pandemia globale.

Di quel primo, confuso momento di creazione tutta mentale e ipotetica ricordo Charlotte Nguyen, la prima protagonista del libro, che emergeva fra le nebbie di quella storia di cui sapevo ancora molto poco. Charlotte era in mezzo alla neve, devastata dopo aver scoperto un segreto tremendo, capace di ribaltare tutte le sue certezze. In quella prima, immateriale stesura, Charlotte aveva scoperto di vivere non sulla Terra ma su una luna fredda e lontana, abbandonata in una città da cui non poteva uscire, sepolta in mezzo alla neve.

Scartai quel primo spunto. Non mi piaceva, mi sembrava troppo centrato sul concetto di manipolazione dell’immaginario collettivo di una piccola comunità chiusa. Era un tema affascinante ma non era di quello che volevo parlare. La centrale, in qualche modo, doveva essere la vera protagonista.

È stata “2+2=5” dei Radiohead a darmi l’illuminazione sul sentiero che volevo percorrere, a indicarmi il finale che volevo dare a questa storia. Non riesco a cominciare neanche il più breve dei racconti, se non so dove voglio andare a parare. Adesso avevo finalmente in mano i due fulcri fondamentali attorno a cui raccogliere quelle idee che continuavano a vorticarmi in testa: una protagonista con molte, false certezze da demolire e un finale – di cui non vi dico niente, che poi è spoiler.

Bisognava cominciare a costruire il mondo di Ganymedian Meltdown, dunque. Perché proprio Ganimede? Perché proprio una luna gioviana? Perché ricordavo gli articoli in cui si parlava di ritrovamenti di vapore acqueo e calotte polari sui Satelliti Medicei (Io, Callisto, Europa e Ganimede) e allora ho cominciato a studiarmele. La scelta è ricaduta su Ganimede, perché era la più grande e aveva un campo magnetico.

A quel punto è intervenuta la parte “fanta” di “fantascienza”, le speculazioni lontane dal reale sulla sua geologia, l’idea di creare un intero mondo sotterraneo, popolato da una specie aliena di orsi polari antropomorfi, i Bopi. I Bopi avrebbero vissuto in gigantesche caverne affacciate sull’oceano sotterraneo, dove la produzione di ossigeno era affidata a piante che realizzavano la chemosintesi (anche qui tantissima speculazione fantastica). Ovviamente per i Bopi c’era un debito di gratitudine verso Viaggio al centro della Terra di Jules Verne ma anche Paperremoto, una delle mie puntate preferite dei DuckTales.

L’ispirazione funziona così: raccogli in giro, anche in maniera involontaria, tutto quello che attira la tua attenzione, poi però lo devi rimasticare, rielaborare, riadattare, spaccare, ricostruire, renderlo tuo per adattarlo al mondo che stai costruendo tu. Ganymedian Meltdown è figlio del mio amore per la fantascienza di Asimov, di Bradbury e di Adams ma è anche figlio di Futurama, di Star Wars e di tutti quei cartoni animati della mia infanzia, pieni zeppi di alieni che erano animali antropomorfi (fan di Biker Mice from Mars, battete un colpo). Mi piaceva l’idea dell’incontro con una specie aliena, che però non fosse declinato in un banale “noi contro loro”.

Mi avevano sempre intristito tutte quelle speculazioni fantascientifiche dove l’uomo era solo. Volevo l’incontro interspecie con altre culture – e ho fatto di tutto perché anche la cultura dei Bopi fosse diversa da quella degli esseri umani. Dovevano avere una loro religione, una loro struttura sociale, delle credenze tutte condizionate dal fatto di essere vissuti sempre sottoterra, alla luce di piante fosforescenti che tappezzavano le pareti del loro gigantesco Megastedion, il gigantesco sistema di caverne in cui i Bopi hanno vissuto per millenni, prima dell’arrivo degli umani.

Per un po’ mi sono incantata a pensare a questi alieni, che vivevano senza conoscere il concetto di “cielo”. Nella loro lingua c’è solo la parola che indica “soffitto”, chissà se Mezhis e gli ambasciatori presso gli umani come lui soffrono di agorafobia, quando salgono “al piano di sopra” per andare a parlare con i cittadini di Heosphoros…

Si vive per lavorare, si muore per lavorare

“Non c’era nulla di se stessa che avrebbe salvato in quel momento, salvo una cosa. Il suo lavoro. Potevano dirle quello che volevano sulla sismologia, sulla sua posizione nell’organigramma della centrale o sul fatto stesso che ci lavorasse ma lei quel posto se lo era meritato con le sue sole forze – tanto più dopo quello che aveva combinato suo padre.”
(Charlotte, pag. 89)

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Una persona cammina lungo il sistema PATH di Toronto (David George-Cosh/BNN Bloomberg)

Sto divagando. Mentre mi incantavo a pensare a loro, nasceva nella mia mente anche la struttura di Heosphoros, una città che per ragioni climatiche si estende tanto sopra il suolo quanto sottoterra. La metropolitana, manco a dirlo, era il mezzo di trasporto fondamentale per spostarsi da un estremo all’altro. Heosphoros si allargava attorno alla centrale nucleare della Hecates Inc. in tre cerchi concentrici, tre gironi. Mano a mano che i palazzi si allontanavano dal cuore pulsante di tutte le attività, erano costruiti sempre più alti sopra il suolo ed erano sempre peggio riscaldati e peggio serviti.

A Heosphoros il privilegio non nasceva dall’etnia ma dal lavoro. A seconda del ruolo che si rivestiva nella centrale si occupavano le abitazioni migliori in città. Ecco, avevo trovato la molla giusta per far scattare le motivazioni dei miei protagonisti.

Charlotte viveva una vita miserabile, costretta a lavorare sei giorni su sette, per più di dodici ore al giorno in un’azienda che si curava dei suoi dipendenti solo finché si rivelavano ingranaggi efficienti e profittevoli. Avere un lavoro dentro la centrale era il suo unico punto d’onore, lei che a ventotto anni si sentiva già annullata e senza altre prospettive che continuare a lavorare, spegnendo ogni ambizione e ogni desiderio, pur di mantenere la madre malata e il fratello rivoluzionario.

Eccolo che nasceva anche lui, Alexavier Nguyen, il fratello minore che a quello status quo voleva ribellarsi, idealista, ottimista, positivo, tutto il contrario di sua sorella maggiore ma legatissimo a lei, disperato nel vederla ridotta in quella condizione pietosa. Era arrabbiato quanto la sua migliore amica Sahasra Ganguli, figlia di una netturbina e di un contadino del Terzo Girone, entrambi orgogliosi del loro lavoro e avversi allo strapotere della centrale. Sahasra era il contraltare di Alexavier, bilanciava il suo idealismo e la sua pacatezza diplomatica con un realismo a tratti deprimente e una rabbia incontenibile.

Mancavano i due antagonisti, definizione riduttiva. Non solo perché nel libro ho scelto di raccontare le vicende di Heosphoros anche dal loro punto di vista, ma perché quei due avevano le loro crociate personali da portare avanti, che coincidevano solo in parte con un’azione di contrasto al percorso dei protagonisti. La penultima a spuntare è stata Liwayway Dimasalang, la terribile Presidente del Consiglio di Sicurezza della Divisione Ganimediana della Hecates Inc. Lei era la “Lady di Ferro” di Ganimede, la sovrana indiscussa di Heosphoros.

A Heosphoros non c’era politica, la politica era tutta nelle mani dell’azienda che più aveva speso per terraformarla e colonizzarla e che adesso, dopo duecento anni di attività, voleva i suoi profitti. Heosphoros e tutta Ganimede dovevano essere il laboratorio dove sperimentare la fusione nucleare – un miraggio tecnologico ancora non raggiunto sulla Terra del 3230. Liwayway credeva in quel sogno, in quel progresso, si esaltava nel servire la sua azienda, calpestando proteste e richieste di rispetto e considerazione da parte dei suoi concittadini.

Liwayway si è formata nella mia mente per contrasto e per somiglianza con Charlotte. Come lei si realizzava solo nel lavoro ma al contrario di lei conosceva i retroscena, sapeva ogni cosa dei segreti di Ganimede e della sua colonizzazione, eppure era pronta a spegnere ogni senso critico per servire la sua adorata Hecates Inc. Così, mentre Charlotte avrebbe scoperto scomode verità e avrebbe aperto gli occhi, Liwayway avrebbe chiuso gli occhi di fronte a tutto quello che la circondava, per mirare dritta al suo obiettivo.

E a quel punto è arrivato Shi-Woo Jung, il Presidente Esecutivo dell’azienda, tutto ciò che Liwayway non era. Imbelle, pigro, depresso, passivo, un rampollo della famiglia Jung – che gestisce la Divisione Terrestre della Hecates Inc. – che aveva avuto tutto senza fare nessuno sforzo. Apparentemente. Shi-Woo è stato l’ultimo protagonista a formarsi nella mia mente e quello che mi ha dato più soddisfazioni, mentre lo descrivevo. Ogni volta che buttavo giù i sotto-capitoli dal suo punto di vista, mi sorprendeva, rivelando una personalità molto più complessa di quella che lasciava trapelare ad arte attraverso le crepe della maschera che indossava.

La costruzione del cast di personaggi non era finita lì, naturalmente. Alcuni comprimari, come l’Ingegnere Capo Archie Morton, si sono presi più spazio di quello che avrei voluto loro dare. Quasi tutti sono sbocciati mentre ne scrivevo. In un piccolo quaderno in cui avevo buttato giù le prime idee di worldbuilding, ho dedicato interi paragrafi a costruire il loro passato e le loro biografie, inventando dettagli che magari neanche avrei menzionato nel romanzo. Io però avevo bisogno di sapere, per esempio, perché la Sismologa Capo Lilian Patel avesse una tale ossessione per la pulizia e per il controllo di ogni elemento del suo aspetto esteriore.

Non lo vedi? Quanta confusione su questa Terra?

Non potevano capire la grandezza del sogno che stava realizzando, l’abnegazione totale con cui doveva dedicarvisi, come il ministro di un culto fondamentale nella vita di un intero Stato. Non potevano capire quanto miopi e limitate fossero le persone che mettevano i bastoni fra le ruote alla centrale con i loro capricci.
(Liwayway Dimasalang, pag. 347)

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Mappa Geologica di Ganimede disponibile sul sito della NASA

Ah sì, gli schemi. Una volta delineato il worldbuilding e il funzionamento di Heosphoros, mi sono servita di uno schema che avevo trovato su Tumblr – c’era questo blog che raccoglieva strumenti e suggerimenti per gli scrittori intenzionati a scrivere un romanzo. Ovviamente gli schemi e le regole sono fatti per essere infranti quindi, dopo aver riempito le caselle dei passaggi in cui avevo deciso di scandire Ganymedian Meltdown, ho scritto i primi capitoli e mi sono resa conto che molte delle cose che avevo previsto andavano cambiate in corsa. Così su quello schema ho appiccicato degli altri foglietti, con lo scotch, aggiungendo mano a mano modifiche e correzioni.

Era un periodo febbrile, quello – mi alzavo in piedi e girovagavo per la stanza, parlando da sola mentre cercavo di spiegare a me stessa ad alta voce gli snodi di trama che non funzionavano. Provavo la fin troppo familiare urgenza di sbrogliare quella matassa di intrecci confusi, di liberarmi dall’ossessione di quel romanzo che ormai era sfuggito al mio controllo ed era cresciuto a dismisura. Dovevo finirlo. Nel mondo reale, frattanto, il 2015 era finito. Avevo steso la prima parte di Ganymedian Meltdown – Ascesa – fra l’autunno e l’inverno di quell’anno. I primi otto mesi del 2016 li avrei tutti dedicati alle altre due fasi – Stallo e Caduta – mentre il mondo attorno a me diventava sempre più confuso.

Il 13 novembre del 2015 c’era stato l’attentato al Bataclan a Parigi. Il 2016 si sarebbe aperto con la morte di David Bowie – lui, che con una sua canzone aveva dato il titolo al primo capitolo del mio romanzo – e, peggio ancora, nel corso dei mesi avremmo assistito alla Brexit, al terremoto di Amatrice e alla vittoria di Trump nelle elezioni statunitensi. Un susseguirsi di disastri e cattive notizie – qui ne ho citati solo alcuni – che si intrecciava a una stesura di una storia che ormai era fitta di vicende diventate sempre più catastrofiche. Temevo di aver reso il mio romanzo troppo pessimista, di aver esagerato con il caos e la sfiducia nei confronti di piccole e grandi comunità umane.

La realtà, però, avrebbe superato anche le mie più cupe fantasie. A settembre 2016 Ganymedian Meltdown era pronto, in una “bozza definitiva” che poi nei successivi cinque anni avrebbe richiesto aggiustamenti. Aggiustamenti soprattutto stilistici, perché della trama e dei personaggi non volevo cambiare una virgola. Li amavo proprio così come erano venuti fuori e quasi mi dispiaceva non aver potuto parlare di loro ancora più a lungo. Come in tutte le cose che scrivo, anche Ganymedian Meltdown era stato redatto in ordine “cronologico”, un capitolo dopo l’altro, perché dovevo crescere insieme ai miei personaggi e non saltare immediatamente alle scene più soddisfacenti e interessanti.

È stato un bene, perché il destino di alcuni di loro è cambiato radicalmente; perché certe scene, che all’inizio avevo progettato in un certo modo, sono cambiate quando mi sono accorta che stridevano con la coerenza interna di quel piccolo mondo nevoso e asfittico che avevo creato. Certo, nella fase di editing c’è stato bisogno di potare parecchi rami secchi, tagliare interi periodi, ridurre la mia tendenza alle frasi ipotattiche immense, ciceroniane, e sfrondare via precisazioni su precisazioni di cui non c’era necessità.

Sul muro del mio corridoio continuava a campeggiare questa gigantesca mappa di Ganimede, che avevo stampato dal sito della NASA e davanti a cui continuavo a passeggiare ogni giorno, riguardando le distanze, immaginandomi i luoghi, chiedendomi cosa sarebbe successo in questo mondo glaciale e decadente, che pure viveva mille anni nel futuro rispetto al nostro tempo.

Il futuro è già passato. Forse.

Detestava la Hecates ma detestava ancora di più quando vedeva le sue idee usate per aggredire gli altri in un confronto impari. Aveva l’animo del cavaliere senza armatura, Sahasra, e non riusciva a concepire uno scontro che non fosse ad armi pari.
(Sahasra Ganguli, pag. 157)

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Paradise Cave, Phong Nha Ke-Bang National Park, Vietnam (Michael Turtle)

Ganymedian Meltdown non è l’inizio di una trilogia ma è a modo suo l’inizio di una saga. Ha inaugurato un universo futuro, dove ci saranno altre specie aliene, altri intrighi politici, altri pianeti e satelliti del sistema solare di cui raccontare gli equilibri sconvolti. Una delle basi del worldbuilding del mio romanzo è che ogni colonia solare è stata occupata da un’alleanza diversa di confederazioni e popoli terrestri, in seguito a quella che avevo definito la Conferenza di Mumbai del 2131 d.C. Era per questo che Ganimede era stata popolata da coloni che provenivano dal Sud-Est Asiatico, dalle Coree, dalla Manciuria, dall’India, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda e dai Paesi del Commonwealth.

Heosphoros non era un’utopia, anzi. È piagata dal classismo e da un’etica capitalistica del lavoro a dir poco distruttiva, ma per mia scelta precisa ho deciso che etnia, genere, orientamento sessuale non sarebbero state caratteristiche oggetto di discriminazione. Ritengo importantissime tutte le opere che denunciano e sviscerano ogni genere di intolleranza e bigottismo ma a volte, da lettrice, voglio immergermi in mondi dove i personaggi che mi rappresentano non devono lottare costantemente solo per rivendicare il loro diritto ad esistere.

Charlotte è una donna lesbica, figlia di un marziano di ascendenza vietnamita e di una ganimediana di ascendenze australiane dalla pelle nera, che non deve affrontare gli ostacoli aggiuntivi di essere emarginata per il colore della sua pelle, per essere donna e perché è una donna che ama le donne. Ho voluto che fosse così. Ho voluto che lei, Sahasra, suo fratello Alexavier, fossero liberi di autodeterminarsi e di combattere contro un potere economico opprimente, senza dover anche parlare e muoversi ricordando costantemente al lettore che loro sono “diversi” e “emarginati”. Non volevo che esistessero nel mio romanzo solo per insegnare al lettore che “non essere normali” è davvero difficile in questo mondo ingiusto.

Questione di punti di vista. Forse nel 2021 possiamo anche immaginare storie fantastiche dove l’umanità ha inventato il salto nell’iperspazio e riesce persino a fondare comunità dove si può vivere godendo di tutti i diritti pur non appartenendo alla ristretta categoria degli uomini cis etero bianchi. Ovviamente non potevo immaginare un mondo perfetto, non volevo farlo, avevo bisogno di muovere i miei personaggi all’interno di una società dove certe ingiustizie permanessero – ma di qualcuna ho preferito fare a meno.

Questa è la storia di come è nato Ganymedian Meltdown, dunque. Una piccola parte, per lo meno. Potrei stare qui a diffondermi per altre cinque pagine su tutte le mie influenze e le ispirazioni – letterarie e non, fantascientifiche e non, da Snowpiercer a Nausicaä della Valle del Vento, dagli album di David Bowie agli articoli sulle sonde e le esplorazioni spaziali. Buona parte dei miei lampi ispirativi sono figli di tutte le suggestioni racimolate nel corso degli anni, cortocircuiti nati accostando per caso questo e quell’altro filo, nascono dal desiderio di voler approfondire nelle storie che avevo amato quelli che mi sembravano i personaggi e i temi lasciati più in disparte.

Ho impiegato un anno e poco più a scrivere Ganymedian Meltdown. Ho trascorso i precedenti quattro anni a immaginare scenari e raccogliere notizie e informazioni, online e non solo. Ma credo, anzi, sono sicura, che mi stessi preparando a scrivere questo romanzo da una vita intera e non c’è libro, non c’è serie TV, non c’è evento reale che non mi abbia aiutata a incamminarmi in questa direzione.

Non vedo l’ora di mettermi al lavoro sui suoi futuri compagni. Ho davvero ancora tanto da raccontare e il mondo reale, come sempre, sfugge veloce al mio controllo e continua a prendere strade imprevedibili.

Buona lettura a chiunque avrà voglia di avanzare fra le steppe nevose di Ganimede. Potete acquistare il volume in formato cartaceo e ebook QUI.


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