Visioni sfocate (di trama) in Casa Disney
ATTENZIONE! QUESTA RECENSIONE PRESENTA SPOILER SUL FINALE DELLA SERIE
«E che cos’è il dolore se non amore che persevera?» esclama Visione in un dialogo pescato dai ricordi più cari che Wanda Maximoff ha di lui.
Una frase, questa, che ben rappresenta la tendenza ormai dominante a preferire le frasi ad effetto, i gesti a effetto, le scene a effetto, che brillano come minuscoli punti solitari nel mare mosso e confuso di troppi personaggi, troppe sottotrame, troppi lanci a futuri, ulteriori prodotti di intrattenimento, tutti inestricabilmente ma sgangheratamente collegati fra loro.
«E che cos’è l’Universo Cinematografico Marvel se non cattiva scrittura che persevera?», verrebbe da rispondere, a conclusione del piccolo tour de force che sono state le nove – inizialmente avrebbero dovuto essere dieci – puntate di WandaVision?
WandaVision è la prima di una nuova, fiammante serie di cartucce che la Disney sta sparando al suo pubblico di vecchi e nuovi aficionados della Marvel, non più dalle sale cinematografiche ma dagli schermi dei loro device casalinghi. Se Mandalorian (2019-presente) è stato il primo passo nel mare burrascoso delle serie televisive in streaming – un mare in cui Netflix ormai veleggia sicuro da quasi un decennio – WandaVision ha dovuto svolgere due ingrati compiti in una volta sola.
Doveva far “dimenticare” ai fan serie come Daredevil (2015-2018) e Jessica Jones (2015-2019), prodotte proprio da Netflix, che tanto successo di critica e di pubblico avevano riscosso. Ha dovuto, all’improvviso, salvare le sorti dell’MCU, quando la pandemia è cascata in testa alle major, provocando la chiusura repentina dei cinema e rendendo impossibile girare molte scene a causa dei nuovi regolamenti anti-COVID.
Chi vi scrive vorrebbe essere pietosa nei confronti di WandaVision. Questa pandemia ha colpito tutti all’improvviso ma vero è che la Disney è uno di quei leviatani che tutto divorano (con l’acquisto della 21st Century Fox ha chiuso i Blue Sky Studios e tanti saluti a un minimo di diversità nell’offerta animata statunitense). La scelta di consegnare un prodotto monco e mal ricucito al pubblico è stata sua, nel disperato tentativo di rilanciare una piattaforma come Disney+ che arranca, fra ridicole censure e sistemi di pagamento che vanno in tilt.
Quello che cercherò di fare in questa recensione è analizzare la serie da due prospettive. Una più tecnica e una che si concentrerà sui temi della serie. Questa parte non sarà spoiler free, quindi addentratevi nella lettura a vostro rischio e pericolo.
Scardinare (male) ogni struttura narrativa
Quattro anni fa FX presentò, per la regia di Noah Hawley (lo stesso della serie di Fargo) uno show ispirato a un personaggio della Marvel: Legion. David Haller, interpretato dall’ottimo Dan Stevens, era Legion, figlio di Charles Xavier e potente telepate. Ma con un grosso problema.
Quando la serie inizia veniamo a sapere che David entra ed esce dagli istituti psichiatrici a causa di una gravissima schizofrenia, diagnosticatagli in giovane età. David vede cose assurde, vede oggetti che gli volano davanti, vede i mobili della cucina di casa sua che letteralmente gli esplodono attorno, vede mostri nella sua testa.
La verità, però, è un’altra e nessuno l’ha mai detta al nostro protagonista: David Haller alias Legion non è schizofrenico ma è un mutante dotato di potentissimi poteri psichici. Le visioni alterate della realtà che lo hanno sempre perseguitato non sono frutto di una malattia mentale. Questo David lo scopre soltanto quando entra in contatto con altri mutanti ma… sì, c’è un “ma”. Tutta la serie continua a giocare sulle ambiguità: David è un narratore inaffidabile e ha una percezione della realtà distorta e lo spettatore è costretto a osservare il mondo dal suo punto di vista e a dubitare di tutto ciò che vede.
Se in alcuni episodi questo stratagemma narrativo può risultare eccessivamente pesante, è vero anche che, soprattutto nei primi episodi, la forza di Legion sta proprio nella sua capacità di confonderci. Ci muoviamo a tentoni nel buio assieme a David e assistiamo a uno spettacolo psichedelico, fitto di visioni allucinanti. La serie non ha così solo una sua impostazione narrativa ben precisa ma anche un’estetica molto definita.
Andiamo a WandaVision. Anche WandaVision vuole giocare, almeno inizialmente, sull’ambiguità. Noi spettatori dovremmo essere gettati in una situazione incomprensibile, senza riuscire a capire se ciò che stiamo guardando è lo show vero e proprio o una distorsione del mondo causata da Wanda e dai suoi poteri di alterazione della realtà. Il primo problema è che la serie ci tiene a farci capire fin da subito che qualcosa non va.
L’allarme è talmente chiaro che le prime tre puntate sono una celebrazione – prima in bianco e nero e poi a colori – degli show che hanno fatto la storia della televisione statunitense: dal Dick Van Dyke Show (1961-1966) a Modern Family (2009-2020), passando per Malcolm In The Middle (2000-2006), solo per citare alcuni degli omaggi.
Lo scollamento dalla realtà standard dei film Marvel è talmente chiaro, che il primo intento di WandaVision evapora come neve al sole al primo fotogramma. L’unico mistero che resta è quello dei motivi che hanno spinto Wanda Maximoff a creare questa realtà fittizia, una bolla confortante in cui vivere insieme a Visione il tipico sogno americano. Quello di una casetta nei sobborghi gentrificati con vicini un po’ ficcanaso ma simpatici, un lavoro stabile e un’adorabile prole al seguito.
A rassicurare lo spettatore che sta assistendo a una visione di Wanda, che questa qui non è la realtà, che c’è qualcosa che non va, qualcosa di sbagliato, qualcosa che si è rotto, non intervengono soltanto apposite “spie narrative”: dal collega di Visione che gli chiede disperatamente di salvarlo dall’essere burattino in questa orribile pantomima all’improvviso apparire del volto di Visione, orribilmente devastato dai colpi di Thanos, che proprio Wanda intravede più di una volta.
Poi arriva la quarta puntata, che ci riporta immediatamente nell’alveo della narrazione a cui ci hanno abituato i film Marvel degli ultimi dieci anni. La fotografia ritorna quella solita, blanda e un po’ bruttina; appaiono Darcy Williams e Jimmy Woo a fare da ponte dal capitolo ormai chiuso della quarta fase dell’MCU; c’è il solito, imponente, onnipresente dispiegamento di forze militari con il solito, anonimo guerrafondaio assetato di potere – Tyler Hayward, direttore ad interim dello S.W.O.R.D. e vero cattivo della storia, ovviamente.
La quarta puntata – come lo sarà anche l’ottava – tira le fila della storia fino a questo momento e ci spiega tutti i dietro le quinte, rivelando una delle più grosse fragilità di WandaVision. Una scrittura pessima, dove gli eventi non sono integrati nella narrazione, che procede a singhiozzi, cercando di barcamenarsi fra due stili completamente opposti.
Il problema principale di WandaVision è che cerca di innovare l’MCU ma restando nel solco della tradizione. Vuole essere disturbante ma vuole essere anche rassicurante, vuole assumere toni più cupi ma senza spaventare troppo i bambini e gli spettatori occasionali. Vuole abbracciare una trama che segua le emozioni dei personaggi più che la logica ma vuole anche restare incastrata nella struttura a tre atti, con tanto di momento di crisi, svolta, picco narrativo e risoluzione finale degli eventi.
WandaVision vuole essere tutto e niente nello stesso identico istante e riesce a fallire su ogni fronte. Sulla mancanza di fluidità nel passaggio fra il mondo “visionario” di Wanda e il mondo reale sicuramente pesano gli effetti collaterali della pandemia ma resta comunque il peccato originale di una serie che vuole essere troppo ambiziosa a tutti i costi.
WandaVision deve far dimenticare, come dicevo più sopra, l’universo dei Defenders della Netflix. Deve far dimenticare Netflix stessa, che si è imposta con un suo stile nel mondo dello streaming, mentre la Disney metteva le mani sul mercato cinematografico, costringendo gli avversari a copiare il suo nuovo stile di produzione o perire – e facendoli perire anche nel primo caso, comunque.
WandaVision vuole essere troppe cose tutte assieme. Dal punto di vista della narrazione è affollata di troppi fili di trama: è una serie che vuole raccontare il dolore e l’elaborazione del lutto – del lutto che Wanda deve affrontare da sola, perché apparentemente gli Avengers non esistono più, in questo preciso pezzetto dell’universo narrativo. Wanda è sola.
È una serie che vuole anche stravolgere le convenzioni narrative del suo stesso universo transmediale ma non vuole farlo troppo forte – o dovrebbe metterne in discussione i presupposti. È una serie che vuole lanciare altre serie e altri lungometraggi cinematografici e quindi già si prepara a finali aperti e ai personaggi lasciati in sospeso. Si prepara a porci altre domande e non darci risposte.
È una serie che presenta ben tre antagonisti: perché non c’è solo Tyler Hayward; c’è anche Agatha Harkness, una strega cattiva che che non ha tempo da perdere per desiderare marito e figli, vuole solo il potere; e c’è pure Wanda stessa, ma di questo parleremmo nel secondo paragrafo.
Soprattutto, WandaVision si perde in troppo citazionismo. Dall’ambizione iniziale di omaggiare le sit-com vecchio stampo ai costanti rimandi al più ampio universo Marvel, WandaVision è disseminata di nostalgie di ogni tipo. Questo è purtroppo un vizio di forma di cui soffrono quasi tutti i prodotti Disney degli ultimi anni, che si tratti di remake e reboot di film e serie ormai diventate classici o che si tratti di storie apparentemente nuove, fitte di strizzate d’occhio agli anni Ottanta e Novanta.
Il risultato è un pastrocchio degno di un brutto videoclip – dove le scene si susseguono e si alternano senza soluzione di continuità. Non c’è uno stile registico e narrativo definito, ogni singola parte sembra girata a una persona diversa e non si armonizza in un unicum coerente. Il ritmo delle nove puntate di WandaVision – che durano una scarsa mezz’ora, in media – è diseguale. Non c’è un crescendo narrativo, ci sono semplicemente puntate troppo lente che si alternano a puntate troppo rapide.
Si ha sempre l’impressione di assistere non al concatenarsi di diversi eventi che formano un racconto ma a un elenco di voci spuntate sulla lista di un immaginario vademecum della “perfetta serie contemporanea”. Abbiamo gli attori di colore per la quota diversità – peccato che il loro impatto sulla trama sia minimo e restino sempre e comunque personaggi di contorno, che cercano di acquistare una loro profondità ma alla fine restano “aiutanti” del protagonista e nulla più.
Abbiamo la narrazione del trauma – probabilmente l’unico momento di vero interesse di tutto WandaVision ma presentato malissimo e in maniera molto sleale. “Malissimo”, perché nel solito tentativo di spiegare tutto allo spettatore in recinti definiti di spazio narrativo, quelle rivelazioni che potevano essere disseminate nel corso delle puntate, insinuando nella nostra mente dubbi e attese, vengono ammassate tutte insieme in un unico contenitore.
Il pretesto è stupido a dir poco: bisogna indagare il passato di Wanda per capire le ragioni del trauma che hanno scatenato i suoi poteri da strega. Queste sono indicazioni che vanno inserite nella sceneggiatura prima di girare una serie, non messe in bocca ai personaggi. C’è sempre il non velato sospetto che la Disney tratti i suoi spettatori come stupidi e trovi più comodo far descrivere gli snodi di trama agli attori, piuttosto che, beh, raccontarli.
È un peccato, perché l’ottava puntata ha il suo bel carico di emozioni. Però gioca anche sporco, quanto il finale della serie, perché costringe i personaggi a farsi carico di tutte le sventure e il dolore del mondo, tirando in ballo addii molto emotivi e sparizioni molto gratuite, solo per costringerci a piangere.
A questo punto tocca parlare dei temi di WandaVision.
Ma facciamo un passetto indietro.
Sedute psicanalitiche per tutti
C’è una puntata della serie dei Simpson – Party Posse: Musica e Follia, quattordicesimo episodio della dodicesima stagione – in cui Bart, Nelson, Milhouse e Ralph vengono reclutati per diventare i membri della boy band Party Posse, che fa il verso agli *NSYNC, tra l’altro ospiti speciali dell’episodio.
Quello che scoprirà Lisa dopo alcune ricerche è che i Party Posse, attraverso messaggi subliminali inseriti nelle loro canzoni, spingono i ragazzini loro fan ad arruolarsi in Marina. Peggio ancora, la creazione stessa della band è parte di un piano segreto della Marina per reclutare giovani leve.
Nel 2019 nei cinema di tutto il mondo la Disney si è decisa finalmente a portare il suo primo film Marvel con protagonista un’eroina: Captain Marvel, interpretata da Brie Larson. Carol Danvers è stata, sulla Terra, un pilota dell’Air Force statunitense e tutto il suo arco narrativo e la sua personalità sembrano ridursi a null’altro che essere un buon soldato. Carol lotta per recuperare i suoi ricordi, tutti legati al suo percorso di pilota, per tornare a essere un soldato fortissimo. Anzi, in questa sua versione super-eroica il suo compito diventa quello di pattugliare la galassia, per proteggerla dai “cattivi” – che in questo film sono incarnati dall’Impero Kree.
Ad aggiungere beffa a beffa, la vera Air Force si è spesa in ogni senso per includere nel pre-show di Captain Marvel in 3600 sale statunitensi gli spot pubblicitari per promuovere l’arruolamento nelle sue fila – senza contare l’acquisto di spazi pubblicitari su siti come Fandom.com e l’organizzazione di eventi stampa con Brie Larsen.
Che negli Stati Uniti non si muova foglia a Hollywood che il Dipartimento della Difesa (DoD) non voglia è un fatto storicamente accertato. Non si fanno film sul complesso militare statunitense senza essere autorizzati da dipendenti militari preposti a vagliare i copioni e decidere quali possano essere finanziati. Avengers (2012) non ottenne questi finanziamenti per un cavillo narrativo importante: lo S.H.I.E.L.D. è un’entità paramilitare che non prende ordini nemmeno dall’esercito statunitense e questo va contro qualsiasi narrativa promossa dal DoD. Dall’altro lato Captain America: The Winter Soldier (2014) vide il rinnovarsi di un felice sodalizio fra la Disney e il Pentagono, proprio perché metteva in crisi l’organizzazione dello S.H.I.E.L.D. e imputava le cause della sua corruzione a agenti dell’Hydra, dunque esterni, dunque non “veri statunitensi”, infiltrati in mezzo ai bravi soldati – come Capitan America.
Ci sono altri film della Marvel che si lanciano in una propaganda militarista più o meno sfacciata. Potrei fare l’esempio di Captain America: Civil War (2016), che stravolge le premesse dell’evento a fumetti originale, per insinuare poco velatamente che i “buoni supereroi” sono quelli che accettano di sottomettere la loro azione agli ordini dei governi mondiali – che poi questi governi mondiali possano essere guidati da figure come quella di Donald Trump è un particolare su cui si preferisce glissare.
Alan Moore ha ampiamente dimostrato con il suo Watchmen (1986-1987) che i supereroi che proteggono lo status quo alla fine possono solo finire per inchinarsi al volere del capo, chiunque esso sia, e scendere in campo per risolvere la guerra del Vietnam per ordine di Richard Nixon.
Non voglio però puntare alle contraddizioni alla base del concetto di supereroe ma fermarmi, più prosaicamente, a questo dato di fatto: le major dell’intrattenimento non sono innocenti. Le enormi somme necessarie per girare questo genere di film richiedono di legarsi a entità governative (ed extra-governative) più o meno potenti, per portare avanti una narrazione parallela.
Pertanto le loro storie non sono mai innocenti ed è decisamente più difficile godersi i prodotti di colossi come la Disney senza chiedersi dove finisca la storia e dove inizi quel tanto di propaganda che, replicato all’infinito in tutto il circuito dell’intrattenimento mainstream, consolida certi pregiudizi e una certa visione del mondo.
WandaVision non fa eccezione, col suo grande dispiego di armi e mezzi militari e con la sua introduzione di un sostituto dello S.H.I.E.L.D.: lo S.W.O.R.D.
È un altro ancora, però, il nodo di trama che più mi disturba di WandaVision e si tratta del suo tema principale: il dolore e l’elaborazione del lutto. Mi disturba la morale che arriva alla fine della storia – perché c’è sempre una morale nei prodotti Disney, non si scampa ai tentativi didascalici dell’intrattenimento di massa statunitense.
Wanda è una donna sola. Peggio ancora, è una donna sola in terra straniera. Wanda non ha amici, non ha più radici, ha perso il fratello gemello con cui era cresciuta e con cui aveva affrontato i momenti migliori e peggiori della sua vita. Ha perso la persona che amava, dopo aver vissuto il trauma di una guerra planetaria.
La serie decide di lasciare che questo trauma la trasformi in un’antagonista – perché Wanda schiavizza mentalmente gli abitanti di un’intera cittadina, costringendoli a diventare i burattini non consenzienti della sua pantomima in salsa sit-com. La serie poi va oltre e lascia Wanda completamente sola.
Tirare in ballo i fumetti Marvel è spesso un esercizio ozioso, perché l’MCU ha deciso di costruirsi un universo a parte – rinunciando a tutti i picchi di complessità raggiunti nel corso degli anni da alcune saghe della Casa delle Idee. Però non posso fare a meno di notare che Agatha Harkness in origine era la mentore di Wanda. Era la persona che l’aiutava a comprendere e usare i suoi poteri.
WandaVision sceglie, invece, la strada del “uno contro tutti” e fa di Wanda contemporaneamente un carnefice e una vittima: un antagonista incompreso, che fa del male agli altri per colpa del suo trauma e per questo è costretta ad auto-esiliarsi lontano da tutti. A poco servono i rari tentativi di Monica Rambeau e di Darcy Williams di connettersi a lei. Semplicemente non ci riescono e la pandemia fa il resto per eliminare quei pochi momenti in cui Monica e Darcy avrebbero davvero potuto sostenere Wanda.
WandaVision ci costringe a contemplare la vita di questa donna che va ancora una volta in pezzi e la punisce con un isolamento estremo, dopo averci proposto lo stanco e trito stereotipo del personaggio che diventa cattivo per colpa dei suoi traumi.
WandaVision ci inganna, con una puntata che dovrebbe rassomigliare a una goffa versione televisiva di una seduta psicoanalitica, e poi ancora una volta ci ricorda che siamo nell’universo Marvel quindi l’unico rimedio ai nodi di trama (e di trauma) è una bella battaglia con tanti effetti speciali e fuochi d’artificio. Finge di voler dissezionare le cause del dolore e presentarci un modo di elaborare il lutto che sia sano e alla fine si chiude con un epilogo a dir poco frustrante.
L’immagine di Wanda che si rinchiude lontano da tutto e da tutti e affronta i suoi traumi e la sua educazione magica da sola è a dir poco deleteria. Quale messaggio vorrebbe la Disney passare con questa serie? Che le persone che subiscono un trauma finiscono inevitabilmente per fare del male agli altri e per questo devono isolarsi e risolvere i propri problemi da soli, finché non sono di nuovo in grado di stare in società?
Non si può prescindere dal porsi queste domande, perché è la serie stessa che ci spinge a interrogarci su come viviamo il dolore e come reagiamo a esso. Ma non riesce ad andare in profondità, si perde in un mare di troppe sottotrame bruscamente interrotte e non può concludere l’arco emozionale dei personaggi.
Visione non è davvero morto. Ha fatto il backup, trovando un corpo ospite funzionante, che sicuramente apparirà in uno dei prossimi appuntamenti cinematografici dell’MCU. I figli di Wanda sono vivi, ce lo anticipa il finale stesso della serie, e hanno bisogno della loro madre. Wanda è pronta a resettare la sua personalità e i suoi traumi per apparire in Doctor Strange 2 – come è già accaduto a Captain Marvel e Black Panther in Avengers: Endgame (2019).
Dunque tutto il carico emotivo di dolore che ci è stato gettato addosso è vano. Abbiamo pianto la morte di personaggi che non sono morti davvero e abbiamo sofferto per dei traumi che, a quanto pare, potevano essere risolti con un po’ di botte ignoranti bene assortite.
Tutto, ancora una volta, è stato rimesso in discussione.
Perché l’unico messaggio che l’immenso universo transmediale della Disney-Marvel continua a proporre è proprio questo: ogni pezzo di questo puzzle supereroico esiste solo per traghettare i personaggi dalla puntata precedente alla successiva. Ogni lungometraggio e ogni serie sono pensati per introdurre nuovi personaggi e cambiare quelli già esistenti solo quel tanto da farli apparire nella storia successiva.
Il desiderio di raccontare una storia al pubblico finisce completamente seppellito sotto l’esigenza di usare la storia stessa come un mezzo per fare marketing alle altre storie.
Se avete giocato a un qualsiasi titolo di Kingdom Hearts, sapete di cosa sto parlando. Di meccaniche narrative frustranti, di personaggi costantemente irrisolti, di rapporti umani che non sfociano mai in una configurazione stabile, di trame eccessivamente aperte che pongono domande su domande, introducono misteri su misteri, ma non danno mai né risposte né risoluzioni.
E così WandaVision è nient’altro che questo. È una domanda che persevera. È un interrogativo lasciato perennemente in sospeso, esattamente come i capitoli precedenti. Il massimo a cui può aspirare è di essere il primo tassello di una nuova fase che si concluderà con un altro, strombazzato finale dove la chiusura degli archi narrativi dei singoli personaggi sarà la morte (Iron Man, Black Widow), la sconfessione totale di tutto ciò per cui hanno lottato (Capitan America) o una sospensione criogenica al fine di essere riutilizzati in serie successive (Thor, Scarlet Witch, Doctor Strange e l’elenco può continuare a lungo).
Come troppi prodotti di intrattenimento Disney dell’ultimo periodo, WandaVision finisce per togliere il piacere della visione al suo pubblico. È brutto e goffo e faticoso da digerire sotto ogni punto di vista: nell’aspetto estetico, nel ritmo narrativo, nel modo in cui pretende di essere profondo ma poi risulta superficiale, quando prova a trattare di temi che vadano oltre l’orgoglio di combattere per gli U-S-A.
La pietra tombale di questa sua inconsistenza, è l’estrema volatilità di uno show che ha occupato i discorsi online per tutta la durata della sua messa in onda ma che adesso sembra già sparito dalle conversazioni fandomiche, rapidamente sostituito da The Falcon and The Winter Soldier (2021).
Di cui probabilmente si smetterà di parlare, non appena sarà la volta di Loki (2021) di scendere in campo.
E poi toccherà a un’altra serie, e quindi a un altro lungometraggio. Quel che è certo è che a questo ritmo la Disney consumerà presto anche il filone delle serie in streaming, dopo essersi lasciata alle spalle terra bruciata nei cinema.
Ma finché potrà mungere la vacca della Marvel, lo farà. E quando sarà completamente prosciugata, ci sarà sempre l’ennesimo reboot dell’Universo di Star Wars su cui contare. Purtroppo.
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