Chi troppo vuole, nulla stringe

Due anni fa Netflix produsse un ONA (Original Net Anime) in dieci episodi, che adattava per la piattaforma e il pubblico internazionale quello che probabilmente è il capolavoro del maestro Go Nagai – nonché un importante punto di svolta per il genere shounen: Devilman.

Devilman Crybaby, affidato alle solitamente capaci mani del regista visionario Masaaki Yuasa, veniva stravolto completamente nel tratto grafico e traslato ai giorni nostri. Prometteva di non seguire la strada della “conservazione”, trasponendo pedissequamente le pagine del manga sul piccolo schermo, ma di “innovare”, andando oltre la lezione del maestro per sconvolgere tutte le nostre certezze di spettatori.

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Il risultato è, invece, una strana via di mezzo fra adesione alla tradizione e cambiamento di facciata, che consegna agli appassionati un prodotto incompleto, un abbozzo di troppi spunti, che non prende chiaramente posizione su nulla e si rivela carente e arraffazzonato non solo nei contenuti ma anche nell’apparato grafico e nella gestione del ritmo narrativo.

Una delusione, sia per chi si aspettava di ritrovarvi lo spirito del manga sia per gli appassionati di Yuasa, che hanno potuto apprezzarlo per opere ben più originali e coerenti con le loro premesse (vedi alla voce: The Tatami Galaxy e Ping Pong: The Animation fra gli altri).

[ATTENZIONE: La seguente recensione contiene SPOILER sul finale della serie]

Il passato è già futuro

All’universo di Devilman si può arrivare passando dal manga, per poi approdare all’adattamento Netflix; oppure, come è accaduto per molti, si può scoprire l’opera del 1972 dopo aver affondato i denti nel poderoso pasticcio ripieno di tutto che è lo show diretto da Yuasa.

In entrambi i casi, si noterà che Devilman Crybaby ha deciso di scardinare l’andamento stringato e lineare di Devilman e privarlo della sua matrice politica, del suo messaggio anti-bellico, ecologista e profondamente pessimista, per concentrarsi sul contenuto delle mutande dei personaggi – senza nulla aggiungere, in termini filosofici, alla storia originale, per appoggiarci sopra a forza una serie di scontate riflessioni su amore e sesso da dramma adolescenziale, che rubano la scena a tutto il resto e lo fanno con banale volgarità.

Ma andiamo per ordine.

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Devilman è stata una serie in grado di segnare un’epoca, stravolgendo il canone di un genere come lo shounen (commerciale e diretto a un pubblico di giovanissimi) e influenzando l’immaginario di lettori e artisti negli anni a venire.

Non è solo la violenza estrema e cruda ad aver reso Devilman un’opera degna di nota. È lo stravolgimento della concezione di Bene e Male e anche il modo in cui l’umanità, come corpo collettivo, viene rappresentata a renderla una di quelle saghe ancora molto attuali.

Si può restare perplessi di fronte agli stilemi e ai codici narrativi tipici degli anni Settanta, di cui Devilman è intriso, ma una volta superato lo “shock” delle prime pagine, fitte di personaggi fortemente caricaturali e situazioni al limite dell’assurdo, ci si trova di fronte al nucleo narrativo della storia. A quel punto a tensione tragica cresce e si comincia ad apprezzare lo stile grafico di Nagai – scarno, come gli episodi di cui la trama si compone e che ben si adattano al messaggio che Devilman vuole comunicare.

Dopo i primi capitoli, splatter e dall’andamento simil-shounen, è Akira Fudo stesso, protagonista e primo “Uomo Diavolo”, a rivolgersi a noi lettori e avvertirci: questa storia non parla solo di lui. Parla di noi, di noi tutti comuni esseri umani, e non potremo fare a meno di sentirci coinvolti e terrorizzati di fronte all’Apocalisse dantesca in cui stiamo per essere proiettati.

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A quel punto Akira ci prende per mano e ci accompagna in un inferno dove i demoni fanno da contorno, perché i veri aguzzini – i veri malvagi che opprimono gli altri esseri umani – siamo proprio noi. Sono le persone senza zanne e senza corna, che in preda alla paura possono sbarazzarsi di ogni briciola di razionalità, diventare crudeli ed egoisti assassini, pronti a smembrare persino bambini, pur di liberare la specie dalla “sozzura dei demoni”.

In un mondo piagato dalla guerra fredda, l’inquinamento e la sovrappopolazione, il razzismo, l’oppressione di classe (gli Anni Settanta sono più vicini agli anni Dieci del Duemila di quanto non ci piaccia pensare) i demoni diventano solo una miccia per accendere quella polveriera di contraddizioni e bassi istinti che sono gli esseri umani. La narrazione di Nagai coinvolge il lettore suo malgrado e lo costringe a confrontarsi con le scene più spiacevoli e umilianti di linciaggio e aggressione dei più deboli ed emarginati. Il finale, in questa storia che vuole essere coerente fino in fondo, non può essere consolante e non lo è. La riflessione e la catarsi possono scaturire solo da una conclusione tanto devastante da mettere chi legge di fronte alle estreme conseguenze della follia umana.

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Piccoli problemi di cuore nel mezzo dell’Apocalisse

Devilman Crybaby sceglie di discostarsi da ogni approccio politico alla storia, trasformando l’epopea di Akira Fudo in un coacervo di simbolismi compressi in un contenitore troppo piccolo per contenerli tutti. Adesso la trasformazione in “Uomo Diavolo” è anche metafora della crescita e della diversità, che fa sentire le persone emarginate e trattate come mostri, delle pressioni sociali e del dramma dell’incomunicabilità fra gli esseri umani.

Devilman Crybaby cerca di parlare di omosessualità, di crescita, di diversità, di amore e relazioni familiari e prova a farlo in quella maniera patinata, cool e trasgressiva a cui Netflix ci ha abituato già da una manciata di anni. Purtroppo il risultato non solo non regge il confronto con la storia originale ma è anche presentato in una confezione trasandata e sgradevole.

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Devilman Crybaby è un brutto anime, prima di tutto da un punto di vista stilistico. Go Nagai aveva preferito una narrazione sintetica, che non si perdesse in inutili giri di parole (pur concedendosi qui e là qualche tavola di infodumping per delineare le basi di un’opera dove ogni certezza viene ribaltata). Devilman Crybaby si perde in sottotrame che nulla aggiungono all’economia del racconto, in personaggi esasperatamente eccezionali nella loro miseria e nella loro eccellenza, nel loro dolore e nella loro depravazione, fino a che risulta difficile immedesimarsi nei loro patimenti.

Troppi personaggi e troppi eventi si ammassano e si rincorrono con tale velocità, che l’unico effetto che raggiungono è quello di restituire una regia confusa e inutilmente affrettata, che spesso si esprime per ellissi non necessarie – rifiutandosi di mostrare accadimenti centrali per la trama, per concentrarsi su dialoghi e scene secondarie, che a poco servono per comprendere la storia o il carattere dei personaggi.

Esempio principe di questa regia carente sono le scene di combattimento. Persino uno scontro degno di rabbia e sangue e arti smembrati, come quello fra Devilman e Sirene, si trasforma in un confuso guazzabuglio di informi macchie di colore di una volgarità noiosa – visto il modo in cui la potentissima demone-uccello viene ridotta a niente più che una pietosa “cagna in calore”.

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Ma sulla “forzata umanizzazione” dei demoni torneremo dopo.

Devilman Crybaby ignora qualsiasi discorso sulla violenza per concentrarsi sul sesso e darne la lettura più scontata e sessuofoba possibile. Lì dove Go Nagai si concentrava sulla condanna della violenza, rappresentando ogni scontro come un dramma che marchiava la psiche e le convinzioni del suo protagonista; Yuasa decide di raccontarci quanto possono essere su di giri gli adolescenti. Anche in questo caso si perde un’occasione per trattare seriamente la violenza che avvelena i rapporti sentimentali e sessuali fra le persone.

Devilman Crybaby è una collezione di occasioni perse. La violenza che inquina la comunicazione sui social, l’emarginazione degli stranieri, il terrore di confrontarsi con la propria omosessualità in un contesto sociale chiuso e bigotto, la degradazione del sesso a pura moneta di scambio sono tutti effetti collaterali di una società malata che meritavano di rientrare a pieno diritto in questo adattamento contemporaneo di Devilman ma anche di essere affrontati con meno superficialità.

Invece Devilman Crybaby li ficca dentro tutti assieme senza assumersi la responsabilità di sviscerarli e prendere posizione. Tutto finisce per essere deviato sulla demonizzazione accanita del corpo femminile – in Devilman Crybaby o sei una santa o sei stata “sporcata” dai desideri sessuali – e su un’ossessiva rappresentazione di corpi nudi aggrovigliati in atti sessuali violenti per il puro gusto di scioccare.

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Peccato che il troppo stroppia e l’effetto complessivo provoca un fastidio più vicino alla nausea che all’indignazione e allo shock veri e propri.

Devilman Crybaby invece di svecchiare quei trope e quelle situazioni che più potevano essere legati al contesto culturale degli anni Settanta si rivela non solo “vecchio” per il 2018 ma pure per i tempi in cui il primo Devilman ha visto la luce.

Tre protagonisti in cerca di un senso

Basta vedere il trattamento riservato ai suoi tre protagonisti per confermare questa impressione.

Akira Fudo è stato ridotto a una macchietta piagnucolante preda dei suoi ormoni, letteralmente niente più che un pezzo di carne guidato dalle voglie dei suoi genitali, che cammina alla ricerca costante di un po’ di sollievo. Nessuna preoccupazione per la fame di violenza che anima il demone Amon, che abita il suo corpo; nessuna considerazione per lo stato malato del mondo che lo circonda, neanche un momento è dedicato a pensare autonomamente per creare il corpo dei Devilmen, che proteggeranno quel poco di umanità rimasta sulla Terra.

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A usare il cervello ci pensa Miki. La Miki Makimura di Devilman Crybaby pensa a tutto lei: è una star dell’atletica, è brava a scuola, è una ragazza coraggiosa e perbene, fa la modella part-time, è una hafu (per metà giapponese e per metà straniera) dagli occhi verdi, incoraggia e perdona tutti, arriva presto, va via presto e pulisce anche il water. Se un difetto va trovato a questa Miki è che non ha difetti. Si tratta di una santa, senza sfumature né desideri né mancanze umane, un personaggio piatto in cui nessuna spettatrice può immedesimarsi. Non è nemmeno un simbolo, come lo era la Miki originaria, che pure con tutti i suoi limiti era un’adorabile cialtrona, violenta e sguaiata, ma sotto sotto innamorata del suo migliore amico in questo modo molto goffo da adolescente.

La Miki 2.0 di Devilman Crybaby sembra non averceli nemmeno, dei sentimenti. È costruita così tanto come un “modello di buon esempio” che persino la sua morte non riesce a scuotere fino in fondo – vista anche la catena di eventi alquanto irragionevoli ed esasperati che portano alla sua morte. Semmai l’unico momento davvero potente di tutta la serie è proprio quello in cui Akira scopre il suo cadavere orrendamente straziato. E questo perché si tratta dell’unica sequenza che riprende davvero le tavole del manga – dimostrando ancora una volta come Devilman Crybaby avrebbe potuto essere un adattamento valido, se non avesse perso tempo a cercare di sembrare cool e giovane.

E poi c’è Ryo Asuka, alias Satana o Lucifero che dir si voglia. Qui regista e sceneggiatore si sono scatenati nel fare a gara di banalità, esasperando i toni fino a raggiungere livelli di patetismo imbarazzanti. Come imbarazzante è il modo in cui la narrazione cerca di farci capire che “qualcosa non va” con Ryo. Ogni puntata in cui il nostro appare è un continuo puntare il dito alla sua crudeltà, alla sua incapacità di provare amore o compassione, c’è persino la versione umana di Psycho Jenny a ricordarci che, ehi, questo qui non è un essere umano ma Satana sotto mentite spoglie.

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A volte – più di una volta – la sceneggiatura di Devilman Crybaby mette in bocca col cucchiaino allo spettatore ogni colpo di scena, ogni spiegazione di ogni svolta della trama, come se fossimo incapaci di capirlo da soli dai gesti e dagli atteggiamenti dei personaggi.

Questa umanità, così banale e scontata

Peggio ancora, Devilman Crybaby sabota tutta la carica sovversiva di un personaggio come Ryo/Satana, tramutandolo nell’ennesimo stereotipo della “Bestia” a cui l’essere umano deve insegnare la civiltà. E qui sta uno degli errori di comprensione fondamentali del Devilman di Yuasa. Nel tentativo di “umanizzare” la fazione dei demoni e rendere il “diverso” più appetibile, Devilman Crybaby non fa altro che forzare l’etica degli esseri umani su creature che da quelle regole non vogliono essere governati.

Come dimostra il sacrificio a cui Kaim si sottopone per aiutare Sirene a vincere e come dimostra la ribellione stessa di Satana a Dio, padre alieno e vendicativo che li ha creati, i demoni sono una specie orgogliosa e violenta, decisi a riprendersi il pianeta che gli è stato stappato via con altrettanta violenza.

Come enunciato da Ryo stesso, ciò che li differenzia dagli umani è la mancanza di razionalità, sono pure masse di istinto, completamente in armonia con una natura selvaggia e rigogliosa, che proprio gli uomini hanno mortificato e saccheggiato con la loro rapacità. La mancanza di pietà che dimostrano nei confronti degli esseri umani è perfettamente logica, in questo ordine di idee. Semmai ciò che sconcerta il lettore è notare che i demoni siano in fondo capaci di essere solidali tra loro molto più degli esseri umani, che sembrano cercare solo la scusa per sbranarsi fra di loro.

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Questi demoni, questo Ryo/Satana, non hanno bisogno di raccogliere nessun testimone spirituale dalla specie umana – come l’anime ci tiene a sottolineare, sbattendoci ossessivamente in faccia la sequenza del passaggio di testimone durante la staffetta, e anche in questo caso gli sceneggiatori e il regista sembrano convinti che abbiamo bisogno di aiuto per capire l’ennesima metafora. Non fa onore, a una serie che pretende di abbracciare il “diverso”, un tentativo di imporre a quello stesso diverso degli standard generalmente accettati dalla fazione avversa.

E d’altronde e paradossalmente se un passaggio di testimone c’è, si trova proprio nel manga e in quel malinconico monologo finale di Satana che, steso di fronte al cadavere dell’amato Akira comprende troppo tardi che la decisione di muovere guerra al genere umano, di decidere dell’esistenza di una intera specie, lo ha reso crudele e prepotente come l’odiato Dio padre. È un finale coerente con il messaggio che Go Nagai voleva trasmettere sull’inutilità della guerra, che porta solo morte, dolore e incomprensione. E se pure è vero che è stato Satana a consegnare all’umanità il coltello, gli esseri umani hanno raccolto quella lama e l’hanno usata per avventarsi gli uni sugli altri.

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Nulla di tutto questo sopravvive nel finale di Devilman Crybaby, un finale triste, certo, ma triste per il gusto di esserlo. Satana ha scoperto l’amore ed è diventato umano, il passaggio di testimone è stato compiuto. E così la tragedia si trasforma in una consolante farsa, offrendo allo spettatore una scappatoia per non guardarsi allo specchio e chiedersi quanto di noi c’è in quegli esseri umani, all’apparenza normali, che in preda alla paura si sono trasformati in demoni, pronti a lanciarsi in feroci cacce alla strega.

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Devilman era intriso di rabbia e di un pessimismo che sprizzavano fuori da ogni schizzo di sangue e da ogni pennellata energica e rozza che deformava i tratti del volto sofferente e impotente di un Akira sempre più disgustato dagli stessi esseri umani che avrebbe dovuto proteggere.

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Devilman Crybaby non ha quella rabbia vibrante e finisce per rivelarsi un prodotto banale, senza un’idea coerente, tagliato e cucito per una determinata audience a cui strizza l’occhio più di una volta. Neanche ci prova, a sfidare quell’audience e a mandarla davvero in crisi – nel 2018 il pubblico è ormai abbastanza avvezzo a certe rappresentazioni acrobatiche del sesso.

Spiace, perché in un’epoca come questa il messaggio iconoclasta di Devilman ci servirebbe ancora di più che nel 1972. E se Devilman Crybaby dimostra qualcosa è che non basta un’estetica cool, un po’ di seni nudi e una spruzzata di personaggi LGBT di contorno per essere innovativi. Ci vuole cuore e il desiderio di raccontare una storia che vada oltre la necessità di soddisfare ben identificate esigenze di marketing internazionale.


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