Il 10 gennaio 2016 si spegne a New York David Bowie, al secolo David Robert Jones, due giorni dopo aver consegnato al mondo la sua ultima opera, Blackstar.
Più che un album è un dolente testamento artistico, in cui Bowie recupera le sonorità jazz tanto amate e condivide con chi lo ascolta il suo personalissimo modo di esorcizzare una morte annunciata da tempo. E quel modo è fare musica e non nascondere niente, neppure un rantolo della sua voce ormai stanca, eppure ancora capace di trasmettere ogni singolo sentimento – anche quello di sentirsi intrappolato in un corpo che sta decadendo più rapidamente di quanto una mente febbrilmente creativa non voglia.
Quell’album dalle sonorità cupissime, sinistre, era stato preceduto dal videoclip del singolo omonimo. Ben dieci minuti di suoni discordanti e atmosfere agghiaccianti quanto i fotogrammi che scorrevano sullo schermo – e, come sempre, Bowie si era divertito a disseminare il suo lavoro di testi e immagini dal significato ambiguo e oscuro, che ognuno può interpretare seguendo la sua sensibilità, ma ben sapendo che non sarà mai disponibile una chiave di lettura definitiva.
Perché quello che era e resta più sorprendente di un album persino più oscuro di Station to Station e del fantasticamente crepuscolare Heathen è la voglia di sperimentare di Bowie, di giocare con le note e con la struttura della lingua, di andare sempre oltre le mode e il sentire del momento, di rappresentare la realtà di quello che stava vivendo nel suo modo molto personale e molto originale.
Bowie, che era nato a Brixton l’8 gennaio 1947, aveva sempre fatto così. Si era sempre nutrito delle suggestioni musicali, artistiche, teatrali, culturali che lo circondavano senza mai fermarsi alla superficie delle cose, senza mai restituire quello che “rubava” ad amici, colleghi e rivali, nel modo più scontato. Ci metteva sempre del suo – spesso restituendo il favore, perché non era solo uno che faceva musica. Era anche uno che faceva fare musica – indirettamente, col suo prepotente fascino da artista poliedrico e scioccante; e direttamente, come mentore e mecenate e guida di colleghi come Iggy Pop e Lou Reed, solo per citare due fra i più famosi.
Era uno che non si teneva nessun sassolino nella scarpa e in un momento di fortissimo successo commerciale – era il 1983 – se ne andava anche a fare interviste per MTV, salvo bacchettare ferocemente il suo interlocutore e la rete per cui lavorava, accusandoli di non dare il giusto spazio e la giusta visibilità agli artisti neri. Gli stessi artisti neri che con la loro musica avevano ispirato prima il “soul di plastica” di Young Americans (1975) e poi il suo maggior successo commerciale, quel Let’s Dance (1983) prodotto da nientemeno che Nile Rodgers.
David Bowie si è permesso di essere tutto e il contrario di tutto, è stato fortemente di nicchia ed esageratamente commerciale. I suoi fan considerano ancora una macchia sulla sua carriera di artista di prima grandezza Tonight (1984) e Never Let Me Down (1987) – commercialissimi, arraffazzonati, scontati (anche se Tonight nasconde due piccole perle come Blue Jean e Loving the Alien) eppure pienamente in linea con cosa sono stati gli Anni Ottanta per il mondo della musica e per la cultura, in generale.
David Bowie è stato cantautore, performer, polistrumentista, mimo, attore di cinema e di teatro, è stato pittore, è stato collezionista d’arte, ha persino doppiato un personaggio in uno speciale di Spongebob. Non si è mai tirato indietro quando c’era bisogno di provare qualcosa di nuovo – poco importava che il risultato fosse qualcosa di estremamente sopraffino o estremamente mediocre o semplicemente bello.
Ha avuto coraggio, è stato irriverente, è stato contraddittorio, è stato l’uomo che ha toccato le stelle e poi è precipitato in fondo, fra i deliri d’onnipotenza dovuti al consumo di cocaina e l’alcolismo del periodo berlinese. È stato un amico eccellente ma anche un geniale ladro di idee e tendenze. Ha inaugurato il glam rock dopo e insieme all’amico/rivale Mark Bolan, quando vestirsi di piume e lustrini sul palco era un rischio; ha anticipato le tendenze punk ampiamente esplorate da Iggy Pop e da tutta la scena punk americana e inglese.
Ha ispirato la new wave con il suo “Heroes” e poi ha preso in giro tutti i New Romantics che, rapiti e innamorati del suo stile, provavano a imitarlo, con Scary Monsters and Super Creep. E da artista sempre molto attento all’aspetto visuale e teatrale delle sue performance canore ha consegnato al mondo quel piccolo capolavoro di videoclip psichedelico e – per l’epoca – costosissimo che è Ashes to Ashes (sì, quello in cui è vestito da Pierrot e si prende gioco di quel “Major Tom” che lo perseguiterà per tutta la vita, fino all’ultimissima apparizione nel video di Blackstar).
Senza la sua musica – senza tutto ciò che ha elaborato, esorcizzato, sviscerato, sventrato, preso in giro ed analizzato di sé – David Bowie forse neanche ci sarebbe arrivato, a sessantanove anni. Di sé diceva, in un’intervista, di considerarsi fortunato, perché proveniva da una famiglia afflitta dai problemi mentali, mentre lui aveva avuto l’opportunità di riversare i suoi “eccessi psicologici” nella musica e nell’arte.
D’altronde era cresciuto al fianco del fratellastro maggiore, Terry Jones, che gli aveva fatto scoprire il jazz ma che era anche afflitto da schizofrenia e sarebbe morto suicida nel 1986 – un lutto che elaborerà artisticamente solo con Jump They Say, una delle tracce di Black Tie White Noise (1993), l’album con cui Bowie tornò a fare quello che sapeva fare meglio: creare musica per se stesso e non cercando di piegarsi alle esigenze di un pubblico che negli anni Ottanta era diventato enorme ma che non gli apparteneva e poco si curava di tutte le sue precedenti sperimentazioni artistiche.
E poi c’era la ricerca spasmodica della spiritualità, il suo dialogo interrotto con la religione, poi ripreso e affondato nel misticismo dal sapore occultistico di Station To Station (1976), che culmina in quel dolente manifesto di rabbia e impotenza e desiderio di risposte che è I Would Be Your Slave – un dialogo, anzi, un monologo con una divinità percepita come distante, muta, persino sadica nel suo non concedersi alle pressanti richieste di manifestarsi da parte di un uomo che già nel 1973, traducendo Jacques Brel, cantava sul palco con tono intensissimo My Death.
Un dialogo accidentato che rende più coerente, se non più comprensibile, la decisione di recitare il “Padre Nostro” alla commemorazione per la morte di Freddie Mercury nel 1992 – un gesto dai più interpretato come simbolo di un imborghesimento dello stesso uomo che nel 2000 avrebbe rifiutato il titolo di Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico.
Sarebbe vano provare a elencare tutto ciò che Bowie è stato e ha fatto per la musica, questo piccolo articolo non basta di per sé a coprire nemmeno un centesimo della sua carriera ma sono ormai cinque anni che David Bowie se n’è andato. Cinque anni che hanno creato un vuoto immenso in un mondo musicale che è sempre più industria e sempre meno aperto a giovani talenti, a nuove leve che vogliano andare oltre il diktat del mercato e le facili hit da radio. Un mondo dove la cultura crea “prodotti artistici” ma non le è più permesso creare arte che sia divisiva, personalissima, contraddittoria, controcorrente, difficile da consumare o sorprendente, semplicemente perché prova ad andare oltre il sentire del momento.
Sono cinque anni che David Bowie se n’è andato ed è straordinario quanta traccia di sé abbia lasciato, fra i fan, fra gli studiosi, fra chi ancora e più di prima scava per riportare alla luce vecchi materiali di studio, testimonianze inedite sul suo passato, collegamenti a tutte le opere artistiche che hanno ispirato la sua multiforme e amplissima produzione.
David Bowie è uno di quegli artisti che meritano di essere ricordati, esplorati, rivisitati, anche contestati, ma vissuti fino in fondo – amandolo pur senza essere d’accordo con tutto quello che ha fatto e detto e prodotto.
Se chiedete alla sottoscritta da dove cominciare, per scoprire almeno il cantautore e musicista, vi direi: dipende. Dipende da ciò che vi piace. La produzione di Bowie potrebbe incantarvi tutta o potreste decidere che ci sono solo un paio di album che vi ispirano – o persino anche solo una playlist di brani. Potreste scoprirlo adesso e metterlo da parte per anni, prima di ritrovarlo e scoprirvi a divorare ogni disco, anche i meno riusciti o i più volutamente difficili.
Se vi piacciono le atmosfere beatlesiane e lo spirito degli anni Sessanta, Space Oddity (1969) e Hunky Dory (1971) fanno per voi. Insieme a The Man Who Sold The World (1971) – dai toni più cupi e metallici – sono la triade dell’esordio, di “prima” che David esplodesse come una stella troppo luminosa. C’è dentro tutto lo smarrimento di un artista che sta ancora cercando la sua strada e che rende quel disagio personale un’esperienza universale, per chiunque si senta sballottato nel mezzo di una vita che sembra senza direzione e si ritrova ad ascoltare Changes e ritrovarci un bel pezzo del proprio smarrimento e della propria frustrazione.
Se volete partire dal Bowie “classico”, dallo Starman che ha rivoluzionato la storia e l’estetica del rock, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders From Mars (1972) e Aladdin Sane (1973) fanno per voi.
Se siete stati adolescenti attorno al 2000 e volete recuperare il rock di quel periodo e le suggestioni a-là Depeche Mode ci sono Heathen (2002) e Reality (2003) – che però sono anche molto più di questo. Se preferite un pop più commerciale e la dance, Let’s Dance (1983) e Tonight (1984) fanno per voi. E se invece preferite l’industrial rock e ritmi più graffianti e difficili degli anni Novanta, ci sono 1. Outside (1995) e Earthling (1997).
E poi ci sono Low (1977), “Heroes” (1977) e Lodger (1979), la “Sacra Triade” della Trilogia Berlinese, intrisi delle suggestioni del krautrock e della musica elettronica dei Kraftwerk.
Ci sono le sonorità più intimiste e dolci di Hours… (1999) e quelle più malinconiche e tradizionalmente rock di The Next Day (2013).
L’elenco potrebbe continuare all’infinito, le combinazioni sono tante e se vi viene voglia di sapere di più, beh, l’elenco di fonti a cui attingere per conoscere meglio Bowie è immenso – a cominciare dai canali social ufficiali, la pagina Facebook ufficiale e la fanpage David Bowie News, il profilo YouTube, che pullula dei suoi videoclip, e il profilo TikTok, dedicato alla sua musica e appena inaugurato.
Io personalmente mi sento di consigliare un libro e un podcast. Quell’immensa enciclopedia di informazioni sulla musica e l’arte di Bowie che è Bowie di Nicholas Pegg e il podcast The A to Z of David Bowie in 72 episodi, curati da Marc Riley and Rob Hughes, un viaggio in ordine alfabetico non solo nelle opere ma anche nella vita e fra gli amici, collaboratori e ispiratori dell’arte di Bowie.
E poi ci sono i documentari – non solo quelli della BBC ma anche quelli realizzati in Italia. Il 10 gennaio alle 22:15 Rai Cinque (Canale 23) manda in onda “David Bowie. London Boy” uno speciale sulla giovinezza di Bowie – che sarà poi disponibile anche su Rai Play, per chi non potrà vederlo in diretta. E non si può non citare il trittico dei “Five Years” realizzati da Francis Whately per la BBC: David Bowie: Five Years (2013) – che si concentra su cinque anni fondamentali per la carriera di Bowie, da Ziggy Stardust a Scary Monsters passando per il Sottile Duca Bianco; David Bowie: The Last Five years (2017) – che racconta gli ultimi cinque anni di Bowie, quelli di The Next Day e Blackstar, quelli passati nell’anonimato, senza più farsi vedere in pubblico dai suoi fan; e infine David Bowie: Finding Fame, sugli anni che hanno preceduto il successo di Ziggy Stardust.
L’elenco di materiali potrebbe continuare all’infinito – proprio come quello sul lavoro e la vita di Bowie – ma mi fermo qui.
Con una richiesta. Non chiamatelo “camaleonte”. Era un termine che non piaceva a Bowie, perché i camaleonti fanno di tutto per uniformarsi all’ambiente circostante. Tutto il contrario di quello che ha sempre fatto David Bowie. Nella sua vita e nella sua arte.
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