Diciotto anni dopo, in quarantena
Immaginate di avere quindici anni. Vostro padre vi porta al cinema a vedere un film: Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello. È il 2002, non avete amici particolarmente nerd e su Internet ancora non vi avventurate granché quindi entrate nel cinema, aspettandovi di vedere un film fantasy e poi, arrivati alla fine, scoprite che non c’è il finale. Arriveranno i nostri eroi a Mordor, sì o no? Che fine farà l’Unico Anello? È solo un viaggio fortuito in libreria, per fare un regalo di compleanno, che vi farà scoprire che esiste un libro, da cui è stato tratto quel film, un bel mattone di 1200 pagine con dentro tutta la storia. E decidete di prenderlo.
Due mesi e mezzo di lettura matta e disperata dopo – ve lo siete proprio divorato – arrivate alla fine. E non siete mai stati così tristi: perché vi sembra di aver lasciato tra le pagine di quel libro degli amici cari. Vorreste addirittura che quella storia fosse durata almeno il doppio, perché c’è una malinconia senza fine che vi prende, insieme alla voglia di tornare a camminare nella Contea e scoprire ancora e ancora più cose su tutti quei luoghi e quelle persone e quei re mitici dai nomi assurdi. In ogni caso, adesso nella vostra vita c’è un prima e un dopo e dopo vi viene così tanta voglia di costruirvi anche voi un mondo bello così, come quello della Terra di Mezzo, che non smettete mai più di pensarci. Quel desiderio di creare mondi ve lo porterete dietro, intatto anche se a volte nascosto sotto altri pensieri, per anni. E poi, alla fine, ci riuscite e cominciate a raccontare anche voi, mettendo su carta tutto quello che vi passa per la testa.
Ecco, tutto questo e parecchio altro è per me Il Signore degli Anelli.
Tutto quel che è oro non luccica
Ci sono determinati libri che ti lasciano, a ogni lettura, qualcosa di diverso, specialmente se ti trovi a sfogliarli in momenti particolari della tua vita. Ed è ovvio che quello che ti colpirà di più di un romanzo a quindici anni non lo farà anche a trenta o scoprirai altri aspetti che nella ottusa cecità della tua adolescenza hai completamente ignorato. Il Signore degli Anelli è sicuramente quel genere di storia per me – con buona pace di chi pensa che la letteratura di genere sia per ragazzini e comunque meno complessa dei romanzi impegnati – ma in questo caso specifico due fattori hanno trasformato questa rilettura in una nuova avventura.
Il contesto, prima di tutto: perché, insomma, leggere nel pieno di una quarantena apparentemente senza data di scadenza di Frodo Baggins e Samvise Gamgee che arrancano nel buio putrido e deprimente delle lande desolate di Mordor, senza sapere se e quando vedranno la fine del loro viaggio – senza nemmeno sapere se potranno tornare indietro, compiuta la missione – fa impressione. Ti senti un po’ un piccolo Mezzuomo solo e senza più riferimenti, tirato in basso da una forza sconosciuta e velenosa che minaccia di consumarti, con la devastante consapevolezza che potresti non farcela – e c’è chi non ha nemmeno un Sam al suo fianco a fargli da compagnia indispensabile, mentre le giornate trascorrono inquiete e desolate.
Certo, in quei lunghi passaggi tormentosi si avverte chiara e tonda l’esperienza di J. R. R. Tolkien in trincea, durante la Prima Guerra Mondiale, e qui – soprattutto nel Primo Mondo – non abbiamo vissuto una guerra. Ma una pandemia di cui ancora non vediamo la fine e che tanti morti e tanto dolore sta causando è pur sempre qualcosa. Di grave, di pesante, che lascia cicatrici profonde su un intero tessuto sociale –a livello globale, per giunta. E mi stupisce quanto nel 2020 quest’epica fantastica e contemporanea abbia ancora così tanto da dirmi, così tanti motivi per emozionarmi, con i suoi protagonisti su cui nessuno scommetterebbe un centesimo.
C’è sempre quella frase di quella breve poesia con cui viene presentato Aragorn, a consegnarmi la chiave di volta di questa avventura meravigliosa: All that is gold does not glitter, tutto quello che è oro non luccica. Che è un po’ quello che si può dire di tutti i protagonisti della storia. Non solo di Aragorn, questo cupo e stanco Ramingo che nessuno crederebbe in grado di reclamare la sua eredità, rendendosi protagonista di imprese grandiose. Ma soprattutto quei quattro Hobbit, all’inizio riguardati con condiscendenza un po’ da tutti. Non sono predestinati, non hanno parenti illustri, non sembrano possedere alcuna qualità particolare, a parte una resistenza fuori dal comune ma così quieta che quasi non si nota. Non la notano nemmeno tutti i detrattori del povero Frodo Baggins, bistrattato anche dai film, ma che pure ha portato su di sè il più tremendo fardello della Terra di Mezzo appeso al collo per mesi, resistendo alla tentazione di fare come Isildur – ben più forte, ben più grande, ben più maestoso.
E dire che Il Signore degli Anelli è soprattutto quello: la storia di un grande malinteso, un’epica molto particolare, perché a mettere nel sacco la più potente incarnazione del Male in Terra (di Mezzo) sono due bravi Hobbit che volevano solo stare a casa a mangiare e fumare Erbapipa. Così piccoli e così apparentemente innocui, che Sauron li ignora per guardare altrove – lui, convintissimo che solo un grande conquistatore dal sangue nobilissimo come Aragorn possa tenergli testa. È sempre rinfrescante, in un’epoca in cui fin troppe storie mainstream sono affollate di predestinati di ogni genere, riscoprire protagonisti che non sono figli di nessuno, con desideri e ambizioni tutto sommato semplici, e che pure hanno la forza di caricarsi sulle spalle una responsabilità mostruosa e preparare un mondo migliore per altri.
Quello che, persino dopo diciotto anni, continua a colpirmi e fare male allo stesso modo della prima volta, è sempre il sacrificio estremo di Frodo, che dopo aver sofferto fin quasi a consumarsi e annullarsi, torna a casa e nemmeno può godersi la Contea finalmente liberata. Non ha reso il mondo migliore per se stesso ma solo per chi verrà dopo di lui: fa male pensare che dopo tante peripezie le vecchie cicatrici continuino a torturarti e i ricordi di un’oscurità troppo profonda non ti abbandonino più, al punto che l’unica consolazione è il riposo eterno – o qualsiasi significato vogliate dare al viaggio verso l’Estremo Ovest.
Quando, diciotto anni dopo, resti bloccato in casa con un male esterno, che la distruzione di nessun artefatto magico può sconfiggere, ti risuona dentro con ancora più forza e ti fa ancora più male. Ti immedesimi anche diversamente e con più consapevolezza in quella lunga avanzata senza una luce di speranza alla fine. Con buona pace di Tolkien, che odiava le allegorie, ma ogni lettore finisce per trovare nelle sue storie preferite un pezzetto di sé. Finisce, per esempio, per associare quell’oscurità infinita e quel peso trascinante verso il basso a certi mali dell’animo molto contemporanei, all’impotenza latente in ogni giornata di non poter arrivare alla fine del proprio percorso e ritrovare il sorriso.
E tutto questo colpisce con ancora più violenza, quando si prende una storia che si è amata molto e si riesce finalmente a leggerla nella lingua originale del suo autore.
Ma quanto è lungo questo libro!
Sì, è lungo Il Signore degli Anelli. Per chi preferisce storie più brevi e scorrevoli, è pesante, interminabile, forse persino troppo “antiquato”, con quel tono epico e quelle continue canzoni che sembrano fuori posto, per chi è abituato a una letteratura più agile e moderna. Niente di male. Se, però, sei un lettore che cerca altro, se vuoi perderti fra le pagine, immergerti nella narrazione fino a scordarti del mondo che ti circonda, questo libro è perfetto.
È stato meraviglioso riscoprire il capolavoro di Tolkien in inglese. Non smetterò mai di ringraziare Vicky Alliata di Villafranca, che pur con i suoi limiti e le piccole sbavature, ha saputo rendere il suo registro aulico e la sua predilezione per le parole più antiquate e fuori moda – ma sempre usate nel contesto giusto. Rituffarsi in questo mattone in lingua originale, però, è davvero una riscoperta in piena regola. Perché ci sono dettagli, del modo di parlare dei personaggi, della descrizione dei luoghi, delle digressioni su questo o quel luogo con una storia importante dietro, che ti danzano davanti agli occhi seguendo una musica tutta loro.
Soprattutto, Tolkien ha questa capacità straordinaria di fissare i momenti-chiave della sua storia con immagini bellissime e tremende, come la sequenza in cui l’Anello cade nella lava del Monte Fato e Sauron realizza dolorosamente troppo tardi che ha perso. Allora tutta la sua coscienza si ritira, cercando di colpire Frodo, e le sue truppe restano smarrite e senza guida. E poi la distruzione definitiva di un Grande Male si abbatte come un’onda di marea, come un sussulto che attraversa il corpo possente della Terra di Mezzo, e prende in pieno anche te, che stai leggendo e senti in ogni parola il suono di quell’Ombra cupa che si estingue, come una tempesta spazzata via da un vento fresco.
Non è facile trovare una storia che riesca a farti provare la stessa magia, eppure Il Signore degli Anelli ci riesce, nonostante tutte le consapevolezze e il cinismo che la vita adulta porta con sé, forse anche perché quello di Arda è un mondo tutto sommato molto semplice. Non parlo della complessità del worldbuilding, di quella capacità di Tolkien di aggiungere sempre un ulteriore livello alle sue storie, un perché e un percome dietro ogni nome di ogni posto. Qui bisogna aprire una piccolissima parentesi, perché oggi non sarebbe permesso così facilmente a un autore pubblicato di aprire il suo romanzo con una lunga digressione sugli usi e costumi del piccolo popolo di sua invenzione, ma il professore di Oxford lo fa. Si prende anche tutto il tempo che gli pare per raccontarti vita, morte e miracoli di un mostro come Shelob, costringendo la narrazione a una sospensione forzata, che aumenta ancora di più la tua ansia, mentre ti chiedi se Frodo riuscirà a sfuggire alle sue chele velenose.
Ci sono strati e strati di rimandi culturali alla letteratura, alla storia, alla linguistica, a tradizioni che affondano le loro radici nel passato più profondo della cultura germanica e non solo, ma il punto è un altro. Il mondo di Arda è molto semplice, perché a Frodo e Sam basta distruggere un Anello magico per spazzare via il Male dal mondo. Certo, quel Male si lascerà degli strascichi e gli uomini saranno sempre pronti a farsi del male e non essere all’altezza del loro compito. Eppure c’è il desiderio, che è la forza e anche il limite di Tolkien, di un mondo più semplice, senza complessi marchingegni, dove possa esistere una torpida e novella Arcadia come la Contea. Lì si può vivere al ritmo della natura, immersi fra boschi e prati verdissimi, trascorrendo le giornate in piccoli villaggi dove la preoccupazione maggiore di ogni abitante è coltivare il proprio appezzamento di terra, fare festa, mangiare e accumulare cose belle nelle proprie casette basse e accoglienti.
È un limite, questo desiderio di semplicità, perché ti porta a desiderare la chiusura e l’uniformità, la divisione del mondo in Buoni e Cattivi – in razze che incarnano il Bene e il Male, che è sempre un ragionamento pericoloso – nel guardare con sospetto qualsiasi novità e diversione dalla norma. Ma di questi limiti ho già parlato, commentando quell’operazione molto interessante che è stata The Last Ringbearer. Dall’altro lato questo approccio al mondo è figlio di un desiderio ingenuo di semplicità; di pochi, importanti gesti che appianassero le divergenze e creassero un mondo più vivibile, più piccolo e più gestibile. Lo si intuisce dalle parole stesse di Tolkien, quando nella premessa al suo capolavoro sottolinea che la sua creatura ha poco da spartire con la guerra reale, la Seconda Guerra Mondiale.
Nel mondo reale, diceva, l’Anello sarebbe stato usato contro Sauron, Sauron stesso catturato e Barad-dûr occupata, mentre Saruman avrebbe scoperto come forgiare il suo Grande Anello e con quello avrebbe sfidato il nuovo, auto-proclamato Sovrano della Terra di Mezzo. Gli Hobbit, presi nel mezzo, sarebbero stati odiati e annientati da entrambe le fazioni. Questo non accade nel mondo di Arda, che a suo modo è una terra popolata di persone gentili.
Punti di vista per storie radicalmente diverse
Le storie sono questione di punti di vista e non è un caso che Il Signore degli Anelli cominci con una lunga digressione sugli Hobbit e poi con la festa di compleanno di Bilbo Baggins. La trilogia cinematografica, invece, comincia con la terribile Battaglia di Dagorlad e l’assedio di Barad-dûr.
Al mondo cinematografico americano interessa la guerra, l’onore, i prescelti armati di spada che dimostrano il loro valore sul campo. A Tolkien interessavano le piccole persone, in grado di cambiare le cose con piccoli atti quotidiani di gentilezza. Interessavano timidi e grassi Hobbit, pronti ad andare in capo al mondo per proteggere la loro amata Contea. Interessavano i guerrieri che amavano le armi non per quello che erano ma per quello che difendevano. È così che Aragorn viene riconosciuto come il legittimo Re fra le mura di Minas Tirith non per il numero di nemici che ha decapitato con la sua Narsil ma perché è un re taumaturgo, ha il preziosissimo potere di guarire i moribondi e riportarli verso la luce.
È così che Faramir non cede come suo fratello Boromir alle lusinghe dell’Anello, perché più che al potere è interessato alla conoscenza e a scrutare nel cuore dei suoi sottoposti, per capirli e aiutarli. È così che Éowyn si salva dal buio, smettendo di desiderare il ferro e la morte in battaglia, per vivere una vita curando le cose che crescono. È così che le battaglie ci sono, ne Il Signore degli Anelli, e le manovre sul campo vengono descritte anche con una certa cognizione di causa ma sono solo tangenziali rispetto ai viaggi. Avevo dimenticato quanto estenuanti e lunghi potessero essere i viaggi in questo libro – Sam e Frodo impiegano ben undici giorni per percorrere il tratto di Mordor che separa la tana di Shelob dall’Orodruin – ma rendono bene l’idea di quanto questo romanzo sia un racconto di resistenza disperata molto più che di lotte epiche.
Ed è vero che le allegorie sono pericolose e al professore non piacevano per nulla ma è pur vero che le storie inventate – e in questo momento ce ne stiamo accorgendo più che mai – sono un conforto potentissimo, quando tutto il mondo sembra essere finito sottosopra e non c’è rimasta una sola certezza a cui appigliarci per non cadere. Il nostro non è un mondo semplice, dove basta distruggere un manufatto magico per distruggere la fonte del Male. Ma in quel mondo semplice c’è voluta tanta tenacia e ci sono voluti tanti amici per sconfiggere un Nemico apparentemente invincibile – vinto invece da una rete di incontri, coltivati nella gentilezza e nel reciproco aiuto nei momenti di difficoltà.
Uno ci spera, in fondo, che basterà questo anche nella realtà: stringere i denti e resistere, nonostante il dolore e i pesi che ti trascinano in basso, per “see it through,”, arrivare fino in fondo, non da soli ma con l’aiuto di amici fidati. Intanto, avere una Contea fantastica a cui tornare e in cui sguazzare, a intervalli irregolari, resta un conforto che nemmeno diciotto anni di vita in più sulle spalle e una quarantena possono strapparti via.
Lunga vita a Il Signore degli Anelli, insomma, sperando che la prossima rilettura accada in tempi decisamente più sereni.
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