Cronache di un amore ucciso in culla e del suo assassino
C’era una volta la Hollywood della fine degli anni Quaranta e un regista, Nicholas Ray, in piena crisi coniugale con sua moglie, l’attrice Gloria Grahame. C’era una volta Humphrey Bogart, che aveva già brillato in Una pallottola per Roy, Il mistero del falco, Casablanca e Il tesoro di Sierra Madre e ancora non lo sapeva, che stava per offrire una delle migliori e più sentite interpretazioni della sua carriera. E c’era un libro, un noir del 1947 di Dorothy P. Huges che si chiamava In A Lonely Place, “In un luogo solitario” e da cui lo sceneggiatore Andrew P. Solt avrebbe tirato fuori una sceneggiatura che di quel romanzo – e del precedente trattamento di Edward North – riprendeva solo alcuni elementi, per poi raccontare un’altra storia.
La storia della Hollywood della fine degli anni Quaranta: di quel delicato e tossico ecosistema di approfittatori e meteore ormai bruciate, di uomini devastati dai postumi di una guerra finita da troppo poco tempo, di rapporti sentimentali difficili e pericolosi e soprattutto della solitudine estrema, che striscia fuori dalle crepe di un muro che a stento riesce a separare il privato da un mondo pubblico, che con i suoi discorsi distorce tutto, anche la percezione che si ha di se stessi.
In A Lonely Place, in italiano adattato in Il diritto di uccidere, è uno di quei film che sfuggono alle categorizzazioni. Ha le atmosfere del noir e un omicidio è la molla che fa scattare la trama ma non sono le indagini né la risoluzione del caso il nodo centrale del film. È una storia su Hollywood e sui suoi mali, certo, ma il dorato mondo dello star system americano fa solo da sfondo a una narrazione che si concentra sui personaggi e sulle loro emozioni, vero motore della creatura di Nicholas Ray. È un racconto a tratti intimista, perché la figura di Dixon Steele, ottimamente interpretato da Bogart, viene dissezionata con cura, così come quella di Laurel Gray, che ha il volto della Grahame. Ed è anche una credibile e calzante descrizione del difficile lavoro di sceneggiatore, in un’industria che vuole le tue competenze per fare soldi, strappandoti però ogni briciolo di autorialità.
In A Lonely Place è, insomma, tante cose, tutte assieme, e come pochi altri film che sfuggono a una singola etichetta, fa il suo lavoro in maniera impeccabile e soprattutto radiografando i sentimenti umani in modo così dolente, da lasciare un segno nello spettatore, al punto che persino riguardandolo nel 2020 c’è da trattenere il fiato per l’angoscia e riflettere sui rapporti fra uomini e donne nel 1950.
Trasformare “Althea Bruce” in un film… prima della fine del film
C’è un uomo, Dixon Steele, che guida solitario nella notte, diretto al centro di Los Angeles. Un solo fascio di luce illumina il suo viso e c’è un brillio malinconico e solitario nel suo sguardo, che si trasforma in una fiamma, pronta a divampare in un’esplosione di pura violenza, quando per poco non finisce coinvolto in un alterco di fronte a un semaforo. Quando si ferma alla sua destinazione, il nightclub Paul’s, un gruppo di ragazzini a caccia di autografi gli corre incontro, prima che il nostro protagonista venga raggiunto dal suo agente e da un amico regista, che ci rivelano quello che l’alterco di poco prima ci aveva già fatto intuire: Dixon Steele è uno sceneggiatore e non ha un carattere affatto semplice. Amico di vecchie glorie ormai decadute, corteggiato ma non troppo da produttori impazienti, accetta di malavoglia – forse e solo dopo aver scaricato la sua rabbia su un malcapitato “genero di un famoso produttore” dalla lingua troppo lunga – di dare uno sguardo a un romanzo, che dovrebbe essere trasformato in un film.
Per questo si affida all’aiuto di una guardarobiera che lavora al nightclub, Mildred Atkins, e se la porta a casa. Solo per parlare del libro, però, e per capire, dalla viva voce di una potenziale spettatrice del futuro film, quali sono i momenti del romanzo che ricorda. Sono quelli su cui dovrà lavorare, se vuole consegnare un prodotto veramente vendibile al suo committente. Ma lo vuole davvero? Poco prima di fare il suo ingresso con Mildred nel proprio appartamento, Dixon incrocia nel cortile che divide la sua villetta da quella antistante una giovane donna avvenente. Non si conoscono, pare, ma lo sguardo che si lanciano lascia intendere che si sono notati. E forse piaciuti. Gli attori principali di questo dramma ci sono quasi tutti – manca il sergente Brub Nicolai, ex-commilitone di Dixon e ora poliziotto, che lo trascinerà al commissariato alle cinque del mattino, perché è stato l’ultimo a vedere viva la povera Mildred. Gli elementi portanti della storia, invece, ci sono già tutti. C’è, soprattutto e prima di tutto, la lampante evidenza che Dixon Steele sia un uomo intrattabile nei suoi momenti migliori, dominato da un’ira che sobbolle piano sotto un’apparenza accidiosa e stanca ma che, quando scoppia, minaccia di accecarlo e renderlo una belva.
“È difficile capire cosa prova Dix. Nessuno di noi è mai riuscito a capirlo,” dirà di lui il sergente Brub parlando col suo capo, il capitano Lochner, che gli chiede lumi sulla personalità dello sceneggiatore, dopo averlo interrogato a proposito degli ultimi momenti che ha passato con la giovane guardarobiera. È una frase importante per comprendere il senso del personaggio di Dixon Steele: ombroso, collerico, circondato più o meno consapevolmente da un’aura di arrogante superiorità, che lo fa sentire migliore non solo rispetto alle persone comuni, ma anche a colleghi meno artisticamente “integri” di lui. Si tratta di un uomo difficile da afferrare e che forse non riesce nemmeno a raccapezzarsi da solo sulla propria identità.
Le prime avvisaglie ci sono già, come ci sono quelle dell’amore che sta già sbocciando fra lui e la vicina Laurel Grey, un’attrice di poco conto, rifugiatasi nella villetta di fianco a lui per sfuggire a un matrimonio promettente ma non desiderato con un uomo molto ricco. Laurel ha messo gli occhi addosso a Steele, a giudicare da come giustifica il suo interesse fuori dalla norma per i suoi movimenti dentro e fuori di casa: “Mi interesso di lui perché lo trovo interessante. Mi piace la sua faccia.” Una sfrontatezza che conquista Dixon, che, dopo un breve corteggiamento, dove già si intravedono i lati possessivi del suo carattere, riesce a conquistare il cuore di Laurel.
Tuttavia lo sceneggiatore non è liberato: né dalle accuse di omicidio – egli indica il fidanzato di Mildred, Henry Kesler, come suo più probabile assassino – né dal fardello di adattare il libro di Althea Bruce in una sceneggiatura buona per diventare un film di successo. L’amore e la presenza materna e ubbidiente di Laurel nella sua vita sembrano dargli l’energia e la costanza che gli mancano per portare a termine il lavoro ma la storia d’amore tragica del romanzo si intreccia sempre più strettamente allo sviluppo del rapporto fra i due. E i sospetti su quell’omicidio irrisolto, che ancora gravano sulle spalle di Dixon, cominciano a insinuarsi anche nella coscienza di Laurel, corroborati dalle parole di vecchi (la massaggiatrice Martha) e nuovi consiglieri (Sylvia, la moglie di Brub). Rafforzati, soprattutto, dagli scoppi d’ira sempre più frequenti di Dixon, dalla paranoia di essere tradito, ogni volta che Laurel gli “nasconde” qualcosa sulla sua vita privata.
“Io nacqui al suo bacio. Morì quando mi lasciò. Vissi finché ebbe vita il suo amore,” dirà a un certo punto lo sceneggiatore, chiedendo consiglio a Laurel su quale punto della sceneggiatura inserire quella frase. A lei, come allo spettatore, sembra che stia parlando di se stesso, di loro due e del sentimento sempre più fragile e soffocante che li lega. Due persone sole, certo, e smarrite ma tormentate da demoni che li stanno distruggendo. Specialmente nel caso di Dixon, che è pur sempre un uomo negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e ha un potere di vita e di morte su quella donna sola e senza una rete familiare alle spalle.
Tutto, insomma, congiura per spingere i due protagonisti verso il peggiore dei finali.
“Voi siete giunti in un luogo solitario”
È difficile parlare di In a Lonely Place senza menzionare il finale. Eppure, non sapere dove la storia ti porterà – dubitare, insieme a Laurel, dell’innocenza di Dixon fino all’ultimo istante – è parte del meccanismo psicologico di un film, su cui molto è stato detto. Poco compreso all’epoca della sua uscita, anche per l’incapacità dei critici di incasellarlo in un genere preciso, il film di Nicholas Ray è sicuramente un commento efficace sui mali di Hollywood, e ancor più sullo scollamento fra vita privata e persona pubblica.
Offre allo spettatore un affaccio privilegiato sull’influenza devastante che ha l’opinione altrui sulla vita di un individuo e quanto della sua maschera pubblica finisca per inquinare anche tutto ciò che c’è sotto. Poco importa se Dixon sia oppure no un criminale: amici, conoscenti, stampa gli hanno già affibbiato questo marchio e il dubbio mette radici nel cuore di Laurel, fino a stritolarlo in una morsa di terrore. Dixon non fa niente per scagionarsi: la sua lunga storia di violenti scoppi d’ira – ai danni di amici e soprattutto delle donne con cui è stato – non depone a suo favore. Il modo in cui reagisce, quando si sente tradito da Laurel e, ancora di più, quando sfoga la sua rabbia su un automobilista che ha avuto il solo torto di insultarlo, quasi uccidendolo, portano tutti noi a condannarlo, a prescindere da ogni prova contraria.
Perché Dixon Steele sia così, non è dato saperlo. Il film ci lascia intuire che il suo carattere fosse già così, anche prima della difficile esperienza in guerra. Certo, le aspettative altrui, il genio frustrato di uno sceneggiatore privato di ogni autorialità ma cosciente della sua superiorità intellettuale, figlia della sua Arte, contribuiscono a rendere il personaggio di Bogart ancora più apparentemente apatico nella realtà, accidiosamente succube di una situazione che però non gli piace. E difatti l’ira è sempre lì, poco sotto la superficie, che cresce in attesa di esplodere.
Il problema è proprio questo: la violenza esiste e non è solo parte del carattere di Dixon. È un malessere pronto a manifestarsi in qualunque altro uomo, che avvelena ogni rapporto sentimentale fra uomini e donne. Lo dimostra la reazione di Brub, uomo onesto e nella media, quando Dixon gli chiede di ricostruire le dinamiche del delitto di Mildred, usando sua moglie, Sylvia Nicolai, nella parte della guardarobiera. La scena è già di per sé inquietante: l’atmosfera si fa buia e un solo fascio di luce illumina gli occhi – ancora una volta loro – di Dixon, che luccicano di una luce folle, mentre descrive il modo in cui l’assassino ha stretto forte il braccio attorno al collo della ragazzaera. La sua voce si fa fonda e concitato è il suo richiamo all’amico sergente a stringere di più attorno al collo di sua moglie, tanto che la povera donna deve richiamarlo alla realtà, perché le sta facendo male.
[ATTENZIONE: Da qui in poi ci sono SPOILER sul finale. Procedete a vostro rischio e pericolo, oppure tornate alla fine della visione del film]
Requiem per un amore mai sbocciato
E se quelle parole risvegliano una violenza sempre esistita anche nel cuore di un uomo fondamentalmente tranquillo, coerente con questo quadro è anche la scoperta che, sì, l’assassino di Mildred è proprio il suo fidanzato, geloso delle attenzioni che la donna, secondo lui, avrebbe dedicato a un uomo famoso nel mondo del cinema come Dixon. E che dire di Dixon stesso, così travolto dalla gelosia e dall’impossibilità di poter possedere Laurel, da metterle le mani al collo, assecondando quella stessa sete di violenza, fin quasi a ucciderla? Poco importa, dunque, che lo sceneggiatore non fosse l’assassino: poteva esserlo, come lo è stato Henry Kessler, come lo stava diventando Brub. C’è un pericolo sempre strisciante nel rapporto fra un uomo e una donna, non importa quanto apparentemente idilliaco, il pericolo che quell’amore possa sempre degenerare in sete di possesso e in morte.
Il fatto che all’ultimo secondo, grazie al trillo del telefono, Dixon riesca a riscuotersi da questa furia omicida e non strangoli Laurel non deve stupire. La sceneggiatura iniziale prevedeva invece la morte dell’aspirante attrice e l’arresto di Dixon – che In A Lonely Place consegna a un destino incerto, facendolo allontanare da solo, ancora una volta, nella notte, osservato da una Laurel in lacrime.
Ray però decise di cambiare quel finale. Perché se Dixon Steel appartiene a Bogart molto più di quanto non sembri, la versione cinematografica di In A Lonely Place di Nicholas Ray è una riflessione molto privata sulla sua vita matrimoniale. Lui e sua moglie, proprio Gloria che interpretava Laurel, si stavano separando in quel periodo, dopo un’unione burrascosa fatta anche di litigi e di botte. Nessuno sul set ne era al corrente, la Grahame aveva dovuto addirittura firmare un contratto, dove si impegnava a sottostare agli ordini del marito-regista tutti i giorni, tranne la domenica, dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, e a non distrarlo con moine varie. A rileggere questi dettagli oggi, ci si rende ancora di più conto di che calzante e crudele fotografia del suo tempo sia In A Lonely Place.
Ray cerca di salvare se stesso, mentre impedisce a Dixon di uccidere Laurel, ma racconta anche tantissimo di come funzionavano i rapporti fra i due sessi nel 1950 nella dorata Hollywood e non solo lì. Tutto il film è intriso di quest’aura opprimente che, come un velo scuro, si srotola sulle figure femminili – tutte in vario grado succubi di mariti o fidanzati, che sembrano avere diritto di vita e di morte su di loro. Anche l’iniziale idillio fra Dixon e Laurel suona falso, condito dalle preoccupazioni della donna, che come una madre accudisce il suo uomo. E tutto funziona finché lei resta lì, nel focolare domestico, ad accudire e vivere solo in funzione del compagno. Tutto si spezza nell’istante in cui prova a tenere segreti – o semplicemente non menzionare – particolari della sua vita privata o mostra dubbi sulla tenuta di un rapporto costantemente messo alla prova dalla minaccia della violenza.
Non c’è forse scena più angosciante – e meglio interpretata – di quella che si svolge nella cucina dell’appartamento di Laurel e poi nel suo soggiorno, quando Dixon decide unilateralmente di sposarla, per legarla definitivamente a sé. Non esiste commento più involontariamente efficace su quanto siamo disposti a perdonare a certi uomini – solo perché artisti – di quello di Mel Lippman. Mel è l’agente di Dixon e dal suo cliente accetta anche i cazzotti, abbassando il capo e restandogli al fianco, alla faccia di tutte le ulcere che gli ha provocato in più di vent’anni. Di fronte al desiderio di Laurel di scappare dalla morsa crudele di Dixon, Mel scuote il capo.
“La violenza è una parte di lui, come il colore dei suoi occhi, la forza della sua testa. È Dix Steele, e se lo vuole, deve prenderlo così com’è, con il buono e con il cattivo. Io lo subisco da più di vent’anni e ricomincerei di nuovo,” esclama, in quelli che sembrano i vagiti di una vittima in preda alla Sindrome di Stoccolma. Tutto va perdonato a Dix, anche quella violenza distruttiva e non solo il cattivo carattere, perché è parte di lui. È un discorso aberrante – e i suoi devastanti effetti si manifesteranno proprio nel tentato omicidio che porterà alla rottura definitiva fra Dix e Laurel – ma in linea con una cultura che fatica a essere soppiantata, un’idea che il maschio non sarà mai completamente civile e sempre, sotto sotto, predatore.
E resta forte la convinzione, poi, che se si è artisti e si hanno le connessioni giuste, ci si può macchiare di qualsiasi crimine, si avrà sempre il diritto di restare liberi (e di uccidere, ecco dove il titolo italiano coglie davvero un lato importante del film). Viene immediatamente da pensare alla cronaca hollywoodiana e a tutte quelle figure che negli anni hanno abusato del loro potere e sono state anche per questo coperte e giustificate (Harvey Weinstein su tutti). Lo dice anche Laurel, parlando a Sylvia del cattivo carattere di Dixon, quando questa obietta che: “Ma è un artista, quindi nulla di più logico che sia impulsivo”.
“Temo purtroppo che agirebbe ugualmente anche se non fosse un artista,” le spiega. Non si può non darle ragione e se è vero che In A Lonely Place è un ritratto dolente, quasi intimista, ma percorso da improvvisi sussulti di una violenza sempre in agguato, di un uomo solo, perché incompreso dagli altri e forse anche da se stesso, è pure la fotografia efficace di quanto sballati fossero i rapporti di potere in una coppia eterosessuale. Di quanto incomprensibile potesse rendersi un uomo, a se stesso e agli altri, seppellendosi sotto strati uguali di ostinato silenzio e sdegnato rifiuto di comunicare i propri dubbi, il proprio dolore, le proprie paure, fino a trasformarle in un puro distillato di furia cieca. Fino a restare in un luogo solitario, appunto, lontano anche dall’amore che lui stesso ha distrutto.
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