Titanic, vent’anni dopo

O “della porta maledetta”

Ci sono film che restano con te per tutta la vita.

Ci sono film che restano con te persino se non li hai mai visti, entrando nella cultura popolare con battute iconiche, scene emblematiche, modi di dire e di fare che finisci per assorbire pure tu – ignaro spettatore bastian contrario, che all’epoca dei fatti ti sei fieramente rifiutato di lasciarti trascinare a fondo (è proprio il caso di dirlo) nel vortice di isteria di massa che ha circondato suddetti film.

Ed è questo il mio caso con Titanic.

Quando il film di James Cameron uscì in Italia, nel lontano 1998, io andavo per gli undici anni e ricordo ancora bene tutto: l’entusiasmo dei compagni di classe, i telegiornali che parlavano meravigliati di ragazzine che l’avevano rivisto decine e decine di volte, My heart will go on a palla dappertutto, fino alla fine dell’estate. Di quel film si parlò per mesi e persino chi, come me, fermamente si rifiutò di guardarlo, finì in un modo o per l’altro per contribuire al suo successo (leggi: corsi al negozio di dischi a comprare Let’s talk about love di Celine Dion, che ancora conservo gelosamente come una reliquia in casa).

Poi il silenzio.

O forse no. No, assolutamente. Poi il ritorno ciclico in tv e a ogni visione tutti incollati sotto lo schermo ad emozionarsi per Jack e Rose. Poi è arrivato internet e tutte quelle battute, da “disegnami come una delle tue ragazze francesi” a “sono passati ottantaquattro anni” sono diventati meme; ci sono persino dettagliate teorie sul perché e percome Jack avrebbe potuto condividere la malnata porta con Rose, giusto per testimoniare di come le storie d’amore che finiscono male restano eccome nella mente di tutti, anche dei più cinici, con tutto il loro corredo di possibilità infrante, di “ma” e di “però”.

C’è poco da dire, Cameron ha fatto il colpaccio, ma io per vent’anni quel film mi sono rifiutato di vederlo. Ho rivalutato Di Caprio, mi sono messa a citare i meme, mi sono spoilerata ogni particolare della storia possibile e immaginabile, ho scoperto questa e quella curiosità sugli attori, ho guardato altri film di Cameron.

Ma Titanic no.

In qualche maniera mi disturbava profondamente l’idea che la morte di più di millecinquecento persone fosse stata adombrata da una patetica storiella d’amore di vaga, shakespeariana ispirazione. In qualche modo mi sentivo presa in giro, come se si volesse giocare con i sentimenti più facili del commuovibile pubblico di massa solo per tirare soldi al botteghino.

Poi, domenica scorsa, l’ennesimo, irrinunciabile passaggio in tv. E io che mi dico: ma insomma, guardiamolo e basta con tutti questi pregiudizi!

Non l’avessi mai detto.

Un fotogramma di Titanic

Lo stile di Cameron

Bisogna fare una premessa: io detesto l’espressione “questo film/libro/fumetto/serie TV è sopravvalutato/a”. Non ha senso. Un conto è dire: “questa opera che ha avuto un gran successo di massa non ha lo spessore né la perizia stilistica che le si vuole attribuire”. Certo, molti fenomeni, contemporanei e non solo, spesso hanno la profondità di una pozzanghera e sono tutto fuorché stilisticamente ineccepibili. Resta il fatto che sono fenomeni, hanno colpito l’immaginario di milioni e milioni di persone, hanno segnato un’epoca, influenzato gusti, condizionato anche tutto ciò che sarà scritto o filmato dopo di loro.

Insomma, stateci. Potete odiare Harry Potter, Il Trono di Spade o Titanic quanto vi pare, ma c’è stato un prima e un dopo con loro, ci sono state milioni di persone la cui vita è stata diversa dopo aver incontrato queste opere. E ve lo dice una che non sopporta nessuna delle tre opere sopracitate.

C’è però un fatto. Con Titanic bisogna fare una distinzione netta fra la perizia di Cameron come regista e la sua furbizia nell’attirare il pubblico in sala sfruttando un espediente di sceneggiatura a dir poco mediocre, come l’inconsistente storiella di infatuazione e attrazione fisica fra due giovani bellissimi, pieni di speranze e sottilmente ribelli.

Dal punto di vista tecnico e stilistico Titanic non solo è praticamente ineccepibile ma ha innovato, portando una vera e propria rivoluzione nel mondo del cinema. Non sto parlando solo degli effetti speciali, anche se già solo questo aspetto sarebbe di per sé notevole: nel 1997 di film che mostrassero sul grande schermo l’affondamento di una nave gigantesca non se ne vedevano certo molti, non con quell’efficacia. Chiunque entrasse al cinema vent’anni fa e si trovasse davanti uno spettacolo del genere non poteva che rimanere impressionato.

Si può dire che Titanic abbia segnato una svolta nel mondo del cinema di massa, quanto lo aveva fatto, a suo tempo, Lo Squalo: quest’ultimo è stato il primo, vero blockbuster della storia; Titanic è stato il primo blockbuster ad altissimo budget e con al suo interno una storia d’amore come fulcro della trama principale, per giunta. Duecento milioni di dollari oggi sembrano la normalità, quando pensiamo a film come quelli della Marvel-Disney o della DC-Warner; all’epoca non lo erano affatto.

Ogni aspetto del film fu curato nei più minimi particolari, Cameron stesso – affascinato com’era dalla storia del Titanic – si preoccupò di andare sott’acqua a filmare il vero relitto, ancora arenato sul fondo dell’Atlantico, nonché si impegnò in una serie di ricerche minuziose e sottopose il manoscritto della sua sceneggiatura a degli storici, per cercare di fornire un background il più verosimile possibile a questo film.

Per non parlare della colonna sonora. My heart will go on è diventato la marca sonora di Titanic, non si può guardare il film senza canticchiare il motivetto e non si può non pensare a Jack e Rose quando la voce di Celine Dion intona il ritornello – con risultati, purtroppo, devastanti, perché una pur bella canzone d’amore è diventata anch’essa un meme.

Cameron ha stabilito un precedente, ha dettato nuove regole e dato standard differenti e più alti per tutti quelli che, da quel momento in poi, avessero voluto fare film ad alto budget, usando gli effetti speciali, per richiamare il pubblico in sala: la storia d’amore, grandi disastri sullo sfondo, la morte incombente sugli amanti giovani e quel senso di ineluttabilità di un fato ingiusto, sono tutti elementi bene o male rintracciabili in molte delle sceneggiature dei blockbuster contemporanei.

Ancor più dal punto di vista visivo i film di punta della stagione vengono ormai nella nostra mente associati a effetti visivi degni di nota, effetti speciali che devono dare il loro massimo in sequenze massicce di grandi esplosioni, battaglie epocali o – per lo meno – panorami da sogno che di terrestre hanno poco o nulla. Se si contano i grandi successi al botteghino dei primi anni Duemila, non sarà difficile identificare molti di questi tratti base in ognuno di loro… e anche in parecchi dei film di supereroi che spopolano da ormai più di un lustro nelle sale cinematografiche (sebbene, in questo caso, ci sia stato un passo ulteriore nella concezione degli elementi del “pacchetto base” che un blockbuster deve possedere, se vuole sperare di essere preso in considerazione; ma questa è un’altra storia).

“Una lunga storia d’amore, appena cominciata, è già finita”

Naturalmente Titanic non ha stabilito un precedente solo per quanto riguarda gli aspetti stilistici e tecnici. Ha stabilito anche un precedente a livello di sceneggiatura che, finora, non ha portato a esiti molto felici. Fondere insieme una storia a base di disastri ed effetti speciali e una prettamente romantica, quando i due generi avevano viaggiato su binari piuttosto distinti fino a quel momento, sembrò strano anche ai produttori della 20th Century Fox ma Cameron aveva capito tutto.

Per citare le sue parole “It’s not a disaster film. It’s a love story with a fastidious overlay of real history”. È questa frase a dare tutto il senso del lavoro di Cameron e di cosa significhi fare un blockbuster dal 1997 in poi. Il punto è questo: le storie d’amore, narrativamente parlando, sono le più facili da imbastire. Seguono una progressione precisa, contengono in sé un certo nucleo di tensione emotiva che attirerà sempre e comunque gli spettatori, anche se sappiamo tutti benissimo che le tappe di questa progressione sono predeterminate e seguiranno sempre e solo un certo tipo di copione.

È molto più facile ideare una storia d’amore contrastata – molti direbbero “alla Romeo e Giulietta”, anche se, dell’intento originario di denuncia sociale di Shakespeare hanno ben poco – e colorarla con una patina di costume storico che, al contrario, scrivere un film storico e cercare di mettere in fila gli eventi senza annoiare lo spettatore – perché c’è quest’assurda concezione diffusa che la storia sia noiosa. Chi vi parla è reduce da quel lavoro di ottima fattura che è stato Dunkirk e non può non fare paragoni, anche se le due storie partono da due presupposti diversi, lavorate da due registi diversissimi e puntano a scopi opposti.

Sta di fatto che Nolan ha ampiamente dimostrato che la Storia non solo non è noiosa, ma può diventare il soggetto principale del film e trasudare umanità e tensione emotiva da tutti i pori, senza nemmeno perdere tempo a far parlare troppo i personaggi di sé. Cameron avrebbe potuto fare la stessa cosa. Avrebbe potuto raccontare la storia del Titanic, fare di quella nave e di tutti gli errori di progettazione e manovra che le si addensarono attorno, la vera protagonista. Fare di tutti i suoi passeggeri e non solo di una coppietta innamorata il fulcro della storia, farci innamorare di famiglie unite, coppie anziane insieme da una vita, giovani pieni di speranza, bambini affezionati ai genitori e poi strapparci il cuore smembrando ognuno di questi felici ménage davanti ai nostri occhi, come l’iceberg che stava squarciando le paratie dell’RMS Titanic.

Invece no. Invece furbamente Cameron non ha rischiato e ha puntato sulla più insipida e petulante storia d’infatuazione e attrazione fisica che abbia mai visto. Il colpo l’ha fatto lo stesso – dopotutto era il 1997, non eravamo abituati, cinematograficamente parlando, a un film mainstream che ci funestasse con una morte ingiusta e dolorosa – e ha toccato i cuori di milioni di persone, che ancora lunedì sera, vent’anni dopo, avevano il coraggio di twittare “quindi ci sono stati davvero un Jack e una Rose su quella nave”. Non è facile sollecitare l’empatia delle persone di fronte ai grandi disastri, checché se ne pensi: di fronte a un lungo elenco di morti, spesso, quelle che una volta erano persone vengono percepite solo come numeri. Forse è anche un modo di attenuare la portata emotiva del colpo – 1500 persone e rotti morte durante una traversata non sono noccioline – ma sta di fatto che piuttosto che raccontare una storia corale, Titanic ha ripiegato su una visione ristretta e stantia, persino poco romantica, se si va a scavare fino in fondo.

Quello che colpisce, come diceva lo stesso Cameron, è l’ingiustizia di una tragedia che ha colpito inaspettata (in realtà no: inaspettata la tragedia lo è stata solo per i passeggeri, non per chi speculò, costruendo la nave male e senza rispettare le procedure di sicurezza, o per chi la mandò contro l’iceberg, antico predecessore dei più moderni Schettini vari). Una tragedia che ha ucciso un giovane nel fiore della vita che aveva tanto da dare, nonostante fosse povero, e ha lasciato in vita un’imbelle ragazza viziata.

Siamo tutti abituati alle storie dove la lei di turno è una fata meravigliosa che irrompe nella vita del mediocre protagonista portando luce e speranza e a volte sacrificandosi lei stessa per farlo migliorare. Titanic, non so quanto consapevolmente, ribalta la prospettiva: è Jack il Manic Dream Pixie Boy che dà letteralmente tutto se stesso a Rose, questa Rose, ricca in decadenza e annoiata, costretta a sposare un uomo così esasperato nei suoi toni da “cattivo&maledetto” che neanche in un anime giapponese di robottoni anni Ottanta. In fondo Jack per Rose non è altro che un piacevole diversivo, una scappatoia da una futura vita da mantenuta eccellente ma prigioniera di un matrimonio infelice, e poi una via di salvezza – datosi che Rose prenderà il cognome di Jack e si rifarà una vita negli USA, prendendosi anche la briga di non raccontare del suo eroico sacrifico finché gli scienziati che studiano il relitto del Titanic non ritroveranno i suoi disegni.

In fondo Rose da Jack ha preso tutto ma non ha dato niente. Se si esclude la comica scena dell’ascia – in cui Rose sembra correre a salvare Jack più per avere compagnia fidata nell’affondamento del Titanic che per altro – Rose mette solamente nei guai un povero Jack che forse avrebbe avuto più chance di salvarsi senza di lei. Lei stessa aveva tutte le possibilità di salvarsi e salire su una scialuppa, da donna della prima classe. Questa Rose che rinuncia e si lascia andare su una porta come improvvisata zattera, affidandogli un “ti amo” che sa già di rinunciatario “addio” non è esattamente la rappresentazione di cosa significhi sacrificarsi per amore. Però è prontissima a risvegliarsi, darsi da fare e scollare persino la salma di un Jack congelato dalla porta, non appena sente arrivare le scialuppe. Nemmeno la briga di provare a farlo tirare su e scaldarlo in extremis si prende, niente.

C’è poco di romantico ma molto di cinico nella storia fra Jack e Rose ed è perfino emblematico che la mia generazione si sia tanto sentita rappresentata da un film che insegna a cogliere l’attimo senza pensare troppo alle conseguenze e mettendo anche nei guai la parte “a rischio” del rapporto, per poi ritirarsi nel guscio e piagnucolarsi addosso di fronte alla presunta ineluttabilità del fato… aspettando sempre che qualcun altro ci tenda la mano per salvarci. Non è molto esaltante ma lo è ancora di meno il fatto che a una storia così insipida Cameron abbia aggiunto tutta una serie di mezzucci per costringere lo spettatore a piangere per forza.

La scena della porta è un’epitome di cattivo cinema, di brutta scrittura dei sentimenti gratuiti, con singhiozzi e parole lacrimevoli e situazioni di sacrificio forzate – proprio in un contesto in cui non ce ne sarebbe stato bisogno – per intristire chi sta assistendo a una situazione che è già abbastanza miserevole di suo. Tutta la seconda parte del film è costruita come un crescendo per mettere Jack e Rose in pericolo nelle situazioni più disparate, facendo balenare sempre il pericolo che muoiano entrambi affogati all’interno della nave. La sequenza diventa estenuante, per quanto è lunga, e anche sottilmente ridicola per quanti guai e quante prove questi due debbano affondare per riuscire ad arrivare sul ponte.

A Jack e Rose fa, naturalmente, da contraltare quello che dovrebbe essere il protagonista del film, ovvero il disastro del Titanic, che non solo diventa un semplice contorno al loro pestilenziale inciucio amoroso, ma deve anche fare da contraltare. Mentre i passeggeri si scannano fra di loro e danno mostra delle peggiori meschinità umane, mentre il panico impazza e tutti scavalcano tutti, senza rispetto alcuni nemmeno per i bambini che piangono, Jack e Rose dovrebbero spiccare per purezza del loro sentimento, per il fatto che si amino così tanto da continuare ad aiutarsi anche mentre il resto del mondo intorno a loro impazzisce.

Il contrasto è così calcato da risultare quasi nauseante ma, d’altronde, Titanic ha stabilito un precedente anche in questo campo: il pubblico vuole farsi imboccare col cucchiaino ogni sentimento, ogni contrasto, ogni situazione difficile. Guai ad andare per sfumature e zone grigie, non capisce e si ribella e si indigna.

E quindi?

Vent’anni dopo riuscire a considerare con una patina di romantica ingenuità la storia d’amore fra Jack e Rose mi risulta alquanto difficile. Titanic è in fondo un film molto meno innocuo e molto più drammatico per il messaggio di sottofondo che passa: usare una storia d’amore per distrarre il pubblico dalla “noiosa copertura storica” è quello che ha portato buona parte delle sceneggiature – e non solo – a deteriorarsi verso stanche romcom in salsa avventurosa/fantascientifica/fantastica/storica e chi più ne ha, più ne metta. Dopo Titanic – e senza voler dare tutte le colpe a Cameron, che in fondo è solo stato il primo ad arrivare a questa nuova formula – una bella confezione è diventata giustificazione sufficiente per la produzione in serie, come zuppa in scatola, sempre delle stesse trame ma tutte con un vestitino alla moda differente.

Ovviamente non tutto il cinema contemporaneo è questo, ma molto del cinema mainstream che affolla le nostre sale è debitore anche alla “formula Titanic” del suo calo di qualità. È quello che vende di più, perché a un pubblico di massa non educato e non abituato a reagire criticamente, invece di farsi incantare dalla logica dei sentimenti facili, sono le banali ma tragiche storie d’amore fra ragazzi giovani, belli e pieni di sogni che piacciono e sono sempre piaciute… ma senza scavare troppo a fondo, o si rischia di risvegliare anche sentimenti scomodi e questo non andrebbe bene.

In definitiva e dopo vent’anni, Titanic regge il colpo e invecchia bene solo a metà: resta un impianto tecnico e stilistico di tutto rispetto, un’ottima regia, una colonna sonora memorabile, costumi da sogno, cura di ogni dettaglio, attori bravissimi. Sotto la superficie, però, il vuoto assoluto.

Quello che ci si trova davanti, guardando le tre, interminabili ore della storia di un naufragio di proporzioni titaniche è null’altro che una bellissima ed elaboratissima confezione regalo. La scatola, purtroppo, è drammaticamente vuota. Con una differenza, rispetto ai blockbuster contemporanei: Cameron, l’abile Cameron, ha saputo consegnare allo spettatore una storia tutto sommato semplice e lineare, che scorre senza intoppi fino alla fine e non pretende di narrare morali superiori al pubblico.

Non si può dire lo stesso del brutto cinema di supereroi a cui siamo stati costretti negli ultimi anni.


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