La bestia nera di Chester Bennington

Chester Bennington of Linkin Park performs on stage at the iHeartRadio Album Release Party presented by State Farm at the iHeartRadio Theater Los Angeles on May 22, 2017 in Burbank, California. (Photo by Rich Fury/Getty Images for iHeartMedia)

Quando muore “uno famoso”, soprattutto se trattasi di un cantante, la trafila dei coccodrilli che vengono fuori è sempre molto simile: una radiografia della sua carriera, un accenno alle canzoni più famose; se chi scrive è o è stato anche un fan, spesso partirà l’aneddotica di rito – “io c’ero”, “io ho visto”, “i suoi lavori mi hanno cambiato l’esistenza”, perché anche quando muore qualcun altro abbiamo tutti la tendenza a fare di quell’evento una cosa nostra.

Quello che spiazza, quando muore uno come Chester Bennington, non è solo l’età – 41 anni, davvero troppo pochi per morire – ma il modo. Perché sentire che uno dei due lead vocalist dei Linkin Park si è suicidato, con un album in promozione, una carriera avviatissima, sei figli, una moglie bella e una bellissima casa, ti fa male.

E scatena le ovvie (ma non comprensibili) critiche da bar, di quelli che nella loro vita di problemi veri non ne hanno mai avuti o da quei problemi sono stati incrudeliti, al punto da non perdonare le debolezze altrui, da sentirsi degli eroi in cima al mondo che possono sputare giudizi, ignorando le condizioni di vita altrui e pretendendo di essere gli unici depositari di una saggezza che di umano e di saggio ha ben poco. D’altronde non tutti probabilmente nasciamo equipaggiati di una certa dose di empatia ma molti non hanno nemmeno voglia di farsela crescere.

D’altronde è più facile esercitare un algido distacco, separarsi cuore e testa da una tragedia privata, non costringersi a immaginare quale dolore una persona “al top” possa avere provato – anche i ricchi piangono? – e anestetizzarsi convenientemente, continuando però a pretendere dalle persone attorno a te quella stessa comprensione che con tanta facilità neghi agli altri. Se c’è una cosa che i social network hanno dimostrato, in fondo, è che la pietà umana è un concetto molto aleatorio, più teorico che esistente in natura.

Hanno dimostrato anche che questo tipo di persone non conoscono i problemi di Chester ma molto più probabilmente sono parte di quel problema, di quella variegata costellazione di personaggi che se nella vita non diventano i tuoi aguzzini, ne diventano complici, con i loro giudizi tagliati col coltello e le loro menti così “normali” da non conoscere né buon gusto né comprensione umana.

Di articoli in giro ne abbiamo visti moltissimi, in questo giorno e mezzo dalla morte di Chester, articoli che hanno attirato l’attenzione anche dei fan occasionali dei Linkin Park – quelli che nel 2000 “In the End” lo hanno ascoltato decine di volte, quelli che sono stati adolescenti qualche anno dopo e “Hybrid Theory” se lo sono comunque consumato dal primo all’ultimo secondo perché, diciamocelo, quei testi intrisi di dolore e quella voce piena di angoscia sembravano la colonna sonora perfetta per incarnare il “teenage angst” che a volte era solo ansia di crescere e a volte, invece, nascondeva qualcosa di peggio.

La vita di Chester Bennington, per chi non si fosse informato in giro, è stata dura fin dai primissimi anni: ultimo di quattro figli, con una madre infermiera e un padre detective che si occupava di indagare sugli abusi sui minori ed era spesso distante ed emotivamente instabile, Chester gli abusi li ha conosciuti anche lui, alla tenera età di sette anni, da parte di un amico più grande che lo ha tormentato fino ai tredici anni. A peggiorare la situazione, a undici anni il divorzio dei genitori e l’affidamento al padre – mai davvero presente – lo hanno spinto a buttarsi sulle droghe, la cocaina, le metanfetamine e, quando a diciassette anni, sua madre ha finalmente scoperto dei suoi problemi, Chester è passato all’abuso di alcool.

A leggere le interviste rilasciate negli anni da Chester, questi particolari terribili emersi sulla sua vita privata sembrano essere stati vomitati fuori quasi di getto (in un’intervista al “Guardian” spiegava di aver deciso di rivelare il suo passato difficile per rispondere a giornalisti e fan convinti che i Linkin Park nei loro testi parlassero di difficoltà personali perché faceva figo, non perché le avessero effettivamente vissute sulla loro pelle). Anche Mike Shinoda, il co-vocalist e lato rapper della band, nonché ideatore della maggior parte dei testi degli LP si è ritrovato ad essere destinatario di queste rivelazioni quasi “per caso”, quando, lavorando ai testi di “Hybrid Theory” Chester gli aveva rivelato che, sì, tutto quel male che metteva in parole (per “resistere alla tentazione di uccidere tutti e scappare via“) aveva delle radici profonde affondate in una realtà molto scomoda.

Tutta la vita di Chester sembra essere stata all’insegna di questa continua altalena, fra il cercare di tenersi tutto dentro e risolvere i propri, terribili problemi da solo, e la disperata ricerca di qualcuno che ascoltasse, mentre si cavava fuori dal petto tutti i demoni che lo perseguitavano, sperando che finalmente lo lasciassero in pace.

Quello che non ti spiegano, quando usano certe metafore, è che dei demoni ti puoi liberare con un buon esorcismo, perché sono qualcosa di esterno da te che ti si infila dentro e che puoi eliminare. La Bestia Nera che affliggeva Chester, no, non era un demone. È qualcosa che ti resta incollato addosso perché trasuda fuori sa ogni cellula del tuo corpo, mentre cerchi di non affogare nel dolore e nel senso di vuoto che traumi così pesanti si lasciano dietro. È qualcosa che crei e alimenti tu, con ogni respiro affannato e ogni pensiero storto, ogni volta che chiudi gli occhi e un passato che non è mai davvero passato torna a bloccare ogni tuo movimento e lasciarti senza fiato. È qualcosa che le persone attorno a te spesso non sanno aiutarti a combattere, perché c’è un problema fondamentale: questa Bestia qui è coriacea, non c’è vaccino che tenga, la puoi solo addormentare e ammansire e sperare di avere le spalle larghe abbastanza per ricacciarla in basso la prossima volta che si rialzerà e ruggirà più forte di prima, pretendendo di soffocare tutto il resto, la luce, i colori, i suoni, gli odori di tutte le cose belle che nonostante tutto hai fatto nella tua vita e che sembrano sbiadire di fronte alla falsa consapevolezza che non ce la puoi fare, che la vita fa troppo male per poter essere sopportata senza stordirsi con qualcosa.

O senza cedere alla tentazione di farla finire e basta e sperare così di zittire per sempre la Bestia insieme a te.

Che Chester stesse male, di nuovo, era chiaro dalle dichiarazioni che faceva a proposito del nuovo album (criticatissimo dai fan di vecchia data, quel misto di rockettari e metallari convinti che fare pop equivalga a vendersi il culo alle major e che una band non debba sperimentare, solo piegarsi a quel capriccio da fan che, come un tossico, pretende sempre la stessa dose di note per endovena, che gli ricordi il primo brivido adolescente provato sparandosi nei timpani “In the End” a tutto volume).

L’attacco di “Heavy” suona così: “I don’t like my mind right now / Stacking up problems that are so unnecessary / Wish that I could slow things down / I wanna let go but there’s comfort in the panic / And I drive myself crazy / Thinking everything’s about me / Yeah, I drive myself crazy / ‘Cause I can’t escape the gravity“. Di quelle prime due frasi Chester diceva che rappresentavano esattamente i suoi sentimenti verso la vita in questo momento ma che, nonostante tutto, voleva lottare piuttosto che arrendersi e rinunciare a tutto. La morte di Chris Cornell, suo amico e sua ispirazione, non deve aver migliorato le cose – soprattutto contando che Chester se n’è andato allo stesso modo, impiccandosi nel giorno in cui Chris avrebbe dovuto compiere cinquantatré anni.

Molti hanno provato e stanno provando a pontificare su questa morte, tirando in ballo frasi fatte sulla ricchezza, sul fatto che Chester fosse famoso e avesse un lavoro bello e di successo. È più comodo e meno disperante che pensare che anche nelle situazioni apparentemente più felici e invidiabili ci sia un sottotesto triste, una qualche specie di fregatura, un lato poco bello e molto sgradevole dell’essere celebrità.

Non si tratta soltanto di far parte di una band che ha avuto una fanbase sempre abbastanza, e mi si passi l’epiteto pesante, “rompicoglioni”, pronta a scagliarsi contro le nuove sperimentazioni della band – sempre per quella supposta idea che se i tuoi suoni diventano più dolci e pop, ti stai vendendo – e pretendere l’ennesima variazione sul tema di “Hybrid Theory”, dopo essersi lamentati che, beh, “Meteora” suonava troppo come il primo album. Chester, fra le altre cose, ha dovuto avere a che fare nel 2008 anche con uno stalker, che ha violato la sua sicurezza e si è impossessato della sua corrispondenza privata con la moglie. Chester ha dovuto avere a che fare con fan snob e giornalisti che all’epoca del lancio della band e del suo immenso successo erano pronti a urlare alla boyband costruita a tavolino e alla bieca operazione commerciale. Persone pronte a negare il suo percorso di vita e le sue fatiche, perché fa più comodo trovare la magagna che pensare che, forse, tutto quel successo i Linkin se lo erano guadagnato lavorando sodo.

Sono cose che ti minano dentro, la sovraesposizione, i giudizi stupidi delle persone – oggi leggibili praticamente ovunque – che non sanno ma che hanno tantissima voglia di parlare, quelle stesse persone che si atteggiano a vittime di un fato crudele ascoltando “Crawling”, solo perché magari la fidanzatina li ha lasciati, ma poi sono prontissimi a dire che tu sta fingendo, mentre esponi cuore e anima in canzoni che milioni di persone ascolteranno.

Chester si è fatto la sua brava gavetta a Phoenix con i Grey Daze e quando a ventidue anni aveva deciso di gettare la spugna, è stato contattato da Jeff Blue per un provino con i Linkin Park. E di lì la strada non è mai stata in discesa: nottate passate a dormire in auto perché non c’erano i soldi per trovarsi un appartamento a Los Angeles, giorni passati nel terrore di non piacere a questa band, che doveva essere l’occasione della vita, a tenersi ogni paura e ogni disagio dentro, e poi le etichette che rifiutano una dopo l’altra i tuoi demo, la Warner Bros che accetta il tuo lavoro con tremila riserve e cerca di snaturare quella che è ormai anche la tua band per farla funzionare “commercialmente”.

E quando arriva il successo se qualcuno pensa che sia fatta e bisogni solo firmare autografi e godersi le urla del pubblico, ebbene, si sbaglia. A leggere la storia degli LP, quello che è successo dopo lo straordinario successo di “Hybrid Theory” è l’etichetta che ti spreme come un limone, sono più di trecento show in giro per il mondo in un solo anno fatto di appena 365 giorni. Sono zero punti di riferimento, mentre ti sballottano da un lato all’altro del globo, con una band con cui non riesci a comunicare, perché loro sono amici di vecchia data e tu ti porti tanto dolore e tanto orrore dentro che preferisci darti all’alcol e al fumo per essere sempre “al top” quando praticamente ogni sera ti vogliono sul palco a cantare le tue canzoni. È litigare con tua moglie, perché non vi vedete mai, e vedere la tua vita che finisce in briciole.

È sopportare il peso della celebrità, che sono i giornalisti in cerca di letture per un pezzo pieno di sensazionalismi e insulti; che sono i fan stalker e quelli che pretendono di sapere meglio di te come fare il tuo lavoro; è il su e giù continuo di adrenalina e tempi morti, mentre sali sul palco e devi essere lì a fomentare folle oceaniche, per poi scendere e ricominciare a lavorare a nuovi pezzi sul bus che ti porta da un lato all’altro del Paese. Quando arrivi a questi livelli non ci sono più giornate normali, non c’è più quella tranquillità che ti servirebbe per rimetterti in piedi e re-incollare i cocci della tua vita in costante cambiamento. Se tutte le tue forze le spremi nel lavoro e nel cercare di tenerti in piedi sul palco, di tempo per sedare la Bestia Nera e rimetterla a dormire non ne hai. Di tempo per non sentirti solo in mezzo a una folla di persone che magari ti vogliono bene ma sono molto occupate anche loro non ne hai.

Nessuno di noi era nella testa di Chester Bennington, nel momento in cui ha deciso che non ce la faceva più, che un altro tour non poteva reggerlo, che il peso di un’altra giornata su questa terra non poteva sopportarlo, non importava la bella casa, l’amorevole moglie, i sei figli, i Linkin Park e tutta la musica intensa e stupenda che aveva fatto e in cui aveva riversato il suo dolore. Se qualcuno ci fosse stato, nella sua testa, se qualcuno avesse guardato più da vicino, forse sarebbe riuscito a fermarlo in tempo ma in ogni caso questa è solo sterile aneddotica, giusto meno sterile di quella dei leoni da bar, tutti bravi a giudicare le scelte estreme altrui prima di tornare a piagnucolare su se stessi.

Quello che so è che adesso riascoltare parole come “I tried so hard / And got so far / But in the end / It doesn’t even matter” farà ancora più male. Quello che so è che invece contava eccome, Chester, tutto quello che avevi fatto, e adesso tutto poteva sembrare nerissimo ma ci sarebbe stata una via d’uscita, perché c’è sempre, nonostante tutto, e non era il suicidio. Quello che so è che fa male pensare che quella personalissima Bestia abbia ruggito così forte da impedirti di vederla, tutta la bellezza che ti circondava e che avresti ancora potuto tirar fuori anche dai tuoi momenti più neri. Ed è un vero peccato.


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4 commenti su “La bestia nera di Chester Bennington

  1. I Linkin Park mi riportano ad una fase della mia vita che ricordo con grandissimo piacere e nostalgia. Non esisteva itunes, quindi se volevi ascoltare una canzone dovevi andare ad un negozio di dischi e comprarti il singolo al costo di euro 6. Tra la montagna di singoli che ho comprato in quegli anni, “In the end” dei Linkin Park è stato senza dubbio uno di quelli che ho messo più spesso nel discman. La mettevo ogni volta che avevo bisogno di un po’ di carica, perché l’energia e la potenza che c’erano nella voce di Chester Bennington erano trascinanti come non mai. E’ un vero peccato pensare che quell’energia e quella potenza si erano esaurite così presto. Ma in fondo non sono affatto esaurite, anzi non si esauriranno mai, perché la musica dei Linkin Park non smetterà mai di venire ascoltata.

    1. Ricordo quei bei tempi! Un po’ mi manca non entrare più nel negozio di dischi della mia città o alla Ricordi e lanciarmi sui nuovi singoli con tutta l’attesa del caso. E, sì, fa male che Chester se ne sia andato così ma è verissimo che ha lasciato un pezzo di sè grandissimo nelle sue canzoni e nella sua musica che non se ne andrà mai e non è un particolare da poco. In qualche modo Chester nei cuori e nella testa di noi fan vivrà sempre, così come continuerà a vivere nei timpani di tutti quelli a cui faremo ascoltare la sua musica.

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