Scegliete la vita, nonostante tutto

Locandine_Trainspotting_E_T2

Con vent’anni di ritardo ho scoperto Trainspotting. L’ho scoperto perché, presa dalla curiosità e senza mai aver visto il primo film, sono andata al cinema a vedere il sequel e sono rimasta folgorata. Così tanto da recuperarmi di volata il primo e scaricarmi i tre libri della “Trilogia di Trainspotting” che Welsh ha scritto fra il 1993 e il 2012.

Questo post non vuole essere tanto una recensione a T2, che mi è piaciuto parecchio, quanto un paragone fra i due film. Anzi, più nello specifico, fra ciò che racconta il Trainspotting del 1996 e quello del 2017. Perché, sì, le cose sono cambiate ma soprattutto Danny Boyle non si è limitato a prendere i quattro protagonisti del vecchio film e ficcarli in nuove avventure pazzerelle, infilando qui e là qualcosa di nuovo e qualcosa di tecnologico, giusto per ricordarci che non sono più gli anni Novanta.

Una cosa si può dire da subito, in ogni caso: il suo gusto musicale è sempre azzeccatissimo e la colonna sonora è, ancora una volta, uno dei punti forti del film, tanto da rendere ogni scena emblematica anche soltanto per il pentagramma di note che l’accompagna.

Ci siamo pippati anche il futuro

Trainspotting e T2 parlano di una generazione ben precisa e del suo fallimento, che non potrebbe essere più evidente nel sequel del 2017: non solo nelle persone di Renton, Sick Boy, Spud e Begbie, ma anche nel confronto impietoso con i loro figli – quelli veri e quelli spirituali – i ventenni che li rifiutano e si prendono gioco di loro. I ventenni che usano altri tipi di droghe e si sentono rifiutati in altri modi dal sistema… ma qui ci ritorniamo.

Ciò che più di tutto colpisce è che né Boyle né gli attori fanno alcuno sforzo per fingere di mostrarci quattro anti-eroi ormai puliti, che hanno scelto la vita e quindi hanno trovato il loro posto nel mondo. Sì, Mark Renton e compagni hanno scelto di vivere ma hanno anche dovuto farlo addossandosi le responsabilità di tutto quello che si sono bruciati negli anni Novanta. Credo che la più grande forza del primo Trainspotting fosse stata proprio questa: la realissima crudezza con cui aveva fotografato una generazione allo sbando, una generazione che nel mondo che la circondava non ci si ritrovava per niente ma, invece di cambiarla come aveva fatto la generazione precedente, aveva scelto di rifiutarla e autodistruggersi.

Aveva scelto l’eroina. Ma l’eroina, come dice Mark Renton nei libri, quando se ne va ti lascia nelle vene solo merda. Ed è quello che si sono lasciati dietro anche gli anni Novanta, purtroppo. Lo cogli nell’afflato rassegnato e decadente di T2, nella stanchezza dei suoi protagonisti, i volti segnati da una vita che è passata per tutti, anche per chi – come Sick Boy – si finge un imprenditore ma avrà per sempre sulla coscienza la vita di una figlia che non ha saputo salvare.

Sono stanchi, Mark e gli altri, sono stanchi e vivono nel passato – come fa notare loro Veronica, prendendoli in giro in bulgaro – e anche questo è un altro sintomo di un’epoca che sembra una distesa di cocci infranti e di memorie nostalgiche, come se il meglio fosse tutto alle spalle, ormai. Boyle, in entrambi i casi, dimostra un talento raro nel saper scegliere le musiche giuste, quelle che immortalano il momento storico e ne ricreano tutta l’atmosfera in un solo schiocco di dita. E se già questo talento era ovvio nel primo Trainspotting, nel secondo il modo in cui vengono gestite le transizioni fra i fotogrammi del vecchio film e le ambientazioni di T2 genera un effetto di nostalgia che investe anche lo spettatore e non solo i protagonisti, che riguardano al loro passato come qualcosa che non potrà tornare ma anche come al momento in cui tutte le scelte più sbagliate sono state fatte.

E non si torna più indietro.

Tragedia vs Tragicommedia

È vero che Trainspotting ha avuto un impatto molto più scioccante di T2 ma le ragioni sono molto più fisiologiche di quello che sembra. Trainspotting raccontava una gioventù in completa autodistruzione, in un periodo in cui tossicodipendenza e HIV erano la nuova “peste” dell’opulento ma già decadente Primo Mondo. T2 parla delle conseguenze di quell’autodistruzione, dei reduci ormai adulti di quella guerra strisciante e sotterranea che ha lasciato solo vittime e macerie, a livello sociale, economico e politico. Perché chi allora non ha saputo né voluto farsi carico del mondo sulle sue spalle giovani, chi ha lasciato morire figli e amici e coetanei, chi ha consumato gran parte della sua vigoria fisica dietro le dipendenze e il rifiuto del mondo, quel mondo l’ha lasciato in mano ai vecchi, ha lasciato che facesse marcia indietro e che si spegnesse, come una piantina dalle radici bruciate.

Trainspotting e T2 raccontano con due tagli diversi due momenti storici diversi ma in concatenazione fra loro di causa ed effetto. Molte cose sono cambiate nel 2017, dai panorami apparentemente meno squallidi alle droghe socialmente molto più accettabili. I quarantenni di oggi e ancor più i ventenni non hanno scelto la vita ma non l’hanno nemmeno rifiutata: ci si sono aggrappati, a quel poco che era rimasto loro in mano, e hanno soffocato persino la rassegnazione sotto il racconto di se stessi sui social. Si sono seppelliti sotto degli status symbol fasulli prodotti al costo della morte di altre persone – come fa notare Renton quando aggiorna il suo famoso monologo “Scegliete la vita”, cavandosi fuori dalla tasca un iPhone costruito «da una donna cinese che si è buttata da un palazzo».

Non sono una che apprezza le tirate contro i social network, perché solitamente il tutto si riduce a uno sterile pippone contro i giovani d’oggi, ma Mark e compagni, in questo caso, c’entrano il punto: no, il web non è l’eroina, non è nato per essere una droga né un mezzo per assuefare le masse, ma lo è diventato. Lo abbiamo fatto diventare una nuova via d’evasione dalla realtà, per di più legalizzata e socialmente accettata. E poi ci sono gli espedienti – perché la vita di tutti nel 2017 galleggia all’insegna di un’espediente per tirare avanti fino alla serata, sperando che il tuo lavoro non finisca troppo presto.

E quindi?

E quindi Trainspotting è un film che dopo vent’anni conserva ancora tutta la sua forza distruttiva, ed è diventato documento storico di un’epoca che va ricordata, per capire come siamo finiti a questo punto. E soprattutto Trainspotting è storia di miserie fin troppo umane, di un contesto sociale in lento ma inarrestabile degrado, di umanità allo sbando senza più certezze, senza più connessioni emotive, senza più relazioni forti su cui contare.

Non c’è niente di retorico o di buonista nella narrazione ed è forse questo il risvolto più crudo e più bello di Trainspotting: nessuno dei protagonisti prova a fingersi un santo o una vittima del sistema, hanno le loro magagne e i loro problemi, hanno i loro morti sulla coscienza da scontare, la responsabilità di una vita che non importa quante volte hanno rifiutato o provato a raggirare. Quella continua a tornare e presentare il conto. E se nel 1996 c’era ancora un colpo di mano su cui poter sperare, per ricominciare a vivere, magari molto lontano da casa, nel 2017 neanche quella via di fuga esiste più e il finale, forse, è ancora più amaro: Renton, Sick Boy, Spud e Begbie continuano a scegliere la vita e qualcuno di loro trova persino, finalmente, un barlume di speranza in mezzo a tutta la melma torbida che la droga e le scelte sbagliate di vent’anni prima si sono lasciate dietro.

Ma questa volta non c’è più spazio per il maxi-televisore del cazzo e per l’assicurazione sanitaria. Questa volta tutte le energie vanno spese per aggrapparsi a quel poco che resta e tenerselo stretto finché dura, sperando – nel mezzo – di trovare un senso per riempirlo, quello spazio di vita che ancora c’è da vivere.


Scopri di più da The Flamingo Strikes Back

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto