Il cinema d’intrattenimento non sta bene? (Risposta: in parte)

Dory vs Civil War

Ieri pomeriggio sono andata al cinema a vedere Alla ricerca di Dory. Spoiler: l’ho molto amato ma ho anche notato qualcosa, un particolare che mi aveva stupito già dai tempi di Zootropolis.

Alla ricerca di Dory e Zootropolis sono stati fra i migliori film d’animazione occidentale che abbia visto quest’anno. Entrambi avevano una trama e soprattutto una sceneggiatura curata. Devo fare un passo indietro: ho sempre pensato che l’animazione potesse raggiungere le stesse vette di alta qualità dei film in live action; che mirare a un pubblico generico non pregiudicasse la possibilità di confezionare un buon prodotto.

Allo stesso modo sono quel tipo di spettatore onnivoro che non disdegna il “cinema d’essay” ma entra in sala soprattutto alla ricerca di divertimento, perché mi piace chiudermi in una sala buia in compagnia di centinaia di sconosciuti e ricevere emozioni positive da ciò che passa sullo schermo.

Ultimamente, però, mi è capitato sempre più spesso di lasciare il cinema in uno stato di profondo disappunto. Se dovessi dire qual è il film che in questo 2016 mi ha fatto ridere più genuinamente – senza forzarmi alla risata, senza giocare sporco su argomenti di per sé ridicoli come produzioni di gas corporee varie ed eventuali – direi «Zootropolis». Se dovessi dire quale film mi ha commosso ed è andato più a fondo nel mio immaginario, direi «Alla ricerca di Dory». Se dovessi accennare a quale film avesse un uso più spregiudicato e originale della sceneggiatura, direi «Deadpool».

Questi tre film hanno qualcosa in comune: sono stati “sottovalutati” dai loro produttori. Nell’ultimo caso, Deadpool è un film su cui Ryan Reynolds si è speso totalmente in prima persona come produttore, né la 20th Century Fox né il resto di Hollywood credevano possibile che un film di supereroi rivolto solamente al pubblico adulto avrebbe potuto incassare granché (e si sbagliavano). Per quanto riguarda i film d’animazione, il loro pubblico di vocazione è quello dei bambini e solo in seconda battuta quello degli adulti che li accompagnano, l’opinione pubblica e i produttori stessi sono abituati a sottovalutarli. E nel mercato contemporaneo cinematografico questo aspetto si rivela, sorprendentemente, una ricchezza.

Da quando anche i film di supereroi si sono rivelati una vacca da mungere per le rispettive case di produzione credo che i vizi di forma di questo genere cinematografico siano saltati all’occhio con ancora più prepotenza. La tendenza a uniformare storie, contenuti, estetica, personaggi, ambientazioni ha colpito così anche un cinema che nasceva dall’adattamento di sceneggiature non originali. Saghe fumettistiche che avevano segnato l’immaginario dei loro lettori sono passati sotto la schiacciasassi della “normalizzazione”, che ha colpito ogni aspetto della costruzione di un film (vedi un interessante video a proposito delle colonne sonore, che mi è stato segnalato qualche giorno fa) nell’intento non dichiarato di ottenere il massimo, investendo il minimo.

Alias: come riciclare le stesse idee, cambiando qualche particolare superficiale, per replicare lo stesso successo di pubblico, senza rischiare sperimentando nuovi modi di raccontare.

Il blockbuster, il cinema d’intrattenimento leggero in cui si investe molto e si parla al grande pubblico, non è solo diventato una zuppa in scatola, prodotta in serie con la confezione che, a intervalli regolari, cambia forma per continuare a sorprendere il suo compratore ma ha preteso anche di rivestirsi di un’aura di profondità. È così che le sale sono state invase da film sempre più pieni di sottotrame poco approfondite, che avevano il duplice intento di intrattenere senza sconvolgere e, allo stesso tempo, di passare un presunto messaggio.

Le supercazzole si sono sprecate, quest’anno: guerre civili fra supereroi, cos’è divino e cos’è profano per l’uomo contemporaneo, la necessità di rivoluzionare una società malata senza uccidere chi non è d’accordo, tutti hanno cercato di insegnarci qualcosa per frasi fatte.

Eppure è Alla ricerca di Dory che ha parlato di problemi mentali, di inadeguatezza, di personaggi non conformi e afflitti da disagi non solo fisici che cercano di trovare un loro posto nella società pur non essendo “perfettamente funzionali. Se voglio parlare di un film, senza inoltrarci nel cinema di denuncia, che ha affrontato il razzismo, l’esclusione di determinate categorie di persone, considerate “pericolose” per puro pregiudizio, che ha fatto educazione civica senza essere pedante, prenderò ad esempio Zootropolis.

Se voglio parlare di un film che ha saputo giocare con una sceneggiatura scorretta e frizzante, presentando allo spettatore un’alternanza fra il piano del presente e quello del passato senza ricadere nel meccanismo farraginoso del flashback, sbattuto a intervalli regolari nel mezzo di una storia già troppo appesantita dai temi più disparati, menzionerò Deadpool.

Al di là di ogni intento educativo, ho sempre pensato che l’intrattenimento non dovesse e non potesse escludere la buona qualità e nemmeno una minima parte di sperimentazione. Quello che stanno facendo le major con i blockbuster – supereroici e non – è portare avanti progetti che non possono prevedere il rischio, perché troppo alti sono gli investimenti fatti su di loro (parliamo di imprese che viaggiano su un costo medio di almeno 100 milioni di dollari). Eppure questo dato non assicura nemmeno l’uso di effetti speciali decenti e di scene d’azione coreografate come si deve, per bilanciare sceneggiature carenti e prevedibili e trame traballanti.

Penso di aver notato un’altissima incidenza di battute riciclate in questo genere di film, al punto da ritrovarmi in sala ad anticipare le parole dei personaggi senza sbagliare di una virgola. Chi ha letto la mia recensione su Suicide Squad sa che mi sono trovata davanti a un film che era costato 175 milioni di dollari è che, come motivazione al team-up finale di un gruppo di cattivi, ha giocato la carta del «siamo una grande famiglia di incompresi».

Il cinema d’intrattenimento di massa sta male? Sì. Sta male perché i produttori spendono troppo e per gli aspetti sbagliati dei singoli progetti (cachet milionari, costumi, location favolose); perché – per ora – il pubblico occasionale delle sale cinematografiche continua a spendere i propri risparmi nella visione di film che non hanno un sapore di riciclato, perché questo tipo di spettatori ne vede troppi pochi all’anno, per poter fare paragoni. Eppure basterebbe poco – o forse troppo per questi produttori, chissà – per ricominciare a plasmare i gusti e rieducare a trame almeno pulite e lineari, senza troppi arzigogoli, senza il fine ulteriore di indottrinare con chissà che messaggio astruso.

Nel frattempo, una cosa è chiara: i bambini che adesso invadono le sale cinematografiche crescono con esempi molto migliori di quelli che vengono comminati ai loro accompagnatori adulti.

In animation we trust.

Sperando che non diventi tutto un Sausage Party.


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