L’Uomo che cadde sulla Terra (1976)

Lo sperimentalismo anni ’70 applicato alla fantascienza più amara

L'Uomo che cadde sulla Terra - Locandina

Prosegue il viaggio della sottoscritta nello sterminato mondo della vita artistica di David Bowie e prosegue con un film che mi aspettavo essere del genere “space opera” è che invece è fantascienza classica at its finest, cupa, disperante, quel genere di fantascienza che sfrutta la dimensione spaziale e aliena per indagare fino in fondo l’abbrutimento del genere umano.

“L’Uomo che cadde sulla Terra” è un film del 1976 – tratto dall’omonimo libro di Walter Tevis del 1963 – di Nicolas Roeg che, a quanto mi dice la Wikipedia, è famoso per essere un regista fortemente sperimentale, che ha spesso fatto ricorso al cut-up, una tecnica narrativa che si basa sulla giustapposizione di riprese in maniera tale da creare veri e propri salti logici e narrativi, creando ad arte vuoti e mancanze che aumentano il senso di smarrimento in chi guarda. Naturalmente si tratta di una tecnica studiata accuratamente, non di menate a cazzo di cane del tipo di “Cinquanta sfumature di Grigio”, per capirci.

Il film ha spaesato, un sacco, pure me e prima di scriverci una recensione ho deciso di rivederlo una seconda volta per riuscire a farne una recensione un po’ più sensata.

La storia

Io sono una di quelle persone che ha già ben poca fiducia nell’umanità ma devo dire che “L’Uomo che cadde sulla Terra” è un film che mi ha riconciliato ancora di più con la mia idea che, come specie, meritiamo l’estinzione di massa (ma penso che ci stiamo già impegnando a tal proposito).

La storia è quella di un alieno che arriva sulla Terra, schiantandosi con la sua navicella, e che, vendendo i brevetti delle invenzioni frutto del progresso tecnologico del suo pianeta, accumula una discreta fortuna per progettare delle navicelle che possano portare in salvo gli ultimi superstiti della sua specie, a rischio di morte certa a causa di una terribile siccità provocata dalle guerre nucleari che hanno devastato il suo mondo.

Grazie alle sue conoscenze Thomas Jerome Newton riesce così a fondare un vero e proprio impero industriale attraverso la World Enterprise e, mentre stringe una relazione con l’umana Mary Lou, e trova nel suo avvocato Oliver Farnsworth e soprattutto nel professore Nathan Bryce le uniche due persone di cui fidarsi, il suo piano sembra avere successo. Come scoprirete invece negli ultimi quaranta minuti del film, tutto quello che può andare storto, andrà stortissimo, e ci si ritroverà con la voglia matta di entrare nello schermo e picchiare tutti e liberare David Bo… pardon, Thomas.

La storia sfrutta insomma il topos del viaggiatore alieno che approda sul nostro pianeta per toccare temi diversi e aprirsi, in fondo, alle interpretazioni più varie: dalla miseria di un genere umano che si perde fra l’alcool e l’avidità – di soldi, potere, sesso – al senso di smarrimento di un essere che si sente totalmente alieno in un mondo a cui non potrà mai appartenere, all’opportunismo e alla fragilità di chi è più vicino a Thomas e dovrebbe aiutarlo, si possono vedere tante metafore in questa storia che non è esattamente a lieto fine.

L’interpretazione che ho fatto più mia è proprio quella del protagonista che, nonostante tutti gli sforzi di mimetizzarsi fra gli esseri umani e nonostante tutto ciò che all’umanità dona, grazie ai suoi brevetti, è e resta un alieno, sempre fuori posto, sempre a disagio, sempre con la mente proiettata a un pianeta e una famiglia che forse non potrà mai più rivedere, cacciato, imprigionato, esaminato come una cavia da laboratorio e abbandonato soprattutto proprio da chi avrebbe potuto e dovuto aiutarlo; lui che alla fine del film esprime forte l’unico desiderio di essere lasciato solo.

Walter Tevis e David Bowie

Ad aumentare questo profondo e devastante senso di alienazione concorrono due fattori fondamentali. Da un lato l’autore del libro da cui il film fu tratto, Walter Tevis, aveva rappresentato molto di sé nel personaggio esile, tormentato, debilitato da malesseri fisici dovuti alla differenza di gravità a cui è abituato rispetto al suo pianeta, costantemente esaminato e dissezionato su un lettino operatorio dagli scienziati senza scrupoli che lo imprigionano, di Thomas. A quanto pare, la vita del povero Tevis era l’epitome del #mainaggioia, fra un fisico troppo debole, la frequentazione costante degli ospedali, un carattere difficile e una vita vissuta – soprattutto in gioventù – nella più totale solitudine. Non stupisce né che Tevis abbia finito per rappresentarsi in un alieno solo e mai accettato dagli esseri umani né dell’esito negativo del suo viaggio di speranza sulla Terra.

Dall’altro lato, e questo risulta da dichiarazioni rilasciate dal cantante stesso, che qui era alla sua prima prova attoriale, David Bowie stava vivendo un periodo personale molto difficile, all’epoca delle riprese, tenendosi in piedi a botte di 10 grammi di cocaina al giorno e in generale sentendosi abbastanza fuori dal mondo a causa di quella fragilità fisica e mentale in cui solo l’abuso di droghe può gettare. A sua detta si trattò di un’interpretazione profondamente “naturale”, perché Bowie non faceva altro che imparare a memoria le battute del giorno e impersonare quell’alieno instabile e solitario semplicemente essendo se stesso.

Fatto sta che nel corpo androgino e nelle movenze eleganti e incerte di David Bowie, Thomas Jerome Newton viene rappresentato a perfezione. Tutto nell’aspetto e nell’atteggiamento di Bowie ne fanno un alieno persino nei rispetti degli attori che recitano assieme a lui, a partire dalla zazzera di capelli rossissimi che lo fanno assomigliare a un demonietto sperduto.

E quindi?

“L’Uomo che cadde sulla Terra” è un film strano, siatene avvertiti. Non va guardato distrattamente, non va preso sottogamba, ha una tecnica narrativa “tosta”, ci sono tanti salti temporali non spiegati, certi cambi scena spaesano non poco, c’è tanta tecnica sperimentale, che certe volte può far ridere per quanto è intellettualistica e apparentemente fuori contesto (come le tre scene di sesso del film, in particolare l’ultima, che sembra un vero e proprio trip psichedelico da acido lisergico).

È anche una storia con una trama molto bella, lineare – a differenza del modo in cui viene raccontata – e durissima, perché non c’è lieto fine, non c’è pace per questo povero alieno, solo dolore, solitudine e un infinito vagare in un mondo corrotto, squallido, pieno di esseri umani in fondo tristi e soli ma mai quanto potrà esserlo lui.

È quel genere di film che oggi non si fanno più o li presentano al Sundance e li mandano in tre copie sputate in qualche cinemino d’essay sperduto in un quartiere mezzo disabitato, quel genere di film su cui oggi nessun produttore punterebbe a prescindere perché nessuno pagherebbe per guardare un film eccessivamente sperimentale, fortemente incomprensibile in certe sue parti, disturbante per i temi che tratta e per il modo in cui sottopone certi passaggi allo spettatore.

È un peccato perché nonostante quelli che possono essere difetti di una tecnica registica che a tratti si fa troppo ermetica e difficile da seguire, nonostante lo smarrimento feroce che ti lascia perplesso di quando in quando, “L’Uomo che cadde sulla Terra” è in ogni caso un film intenso, drammatico, una fantascienza introspettiva e dolente che lascia un retrogusto amaro alla fine della visione.

Con queste premesse, sta a voi decidere se vederlo o no, sicuramente lo consiglio agli amanti della fantascienza classica, di David Bowie o di entrambi.


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