Di Confessione a Tanacu va subito detto che, nonostante il taglio quasi giornalistico di quella che vuole essere una narrazione veristica di eventi molto reali, la lettura prende immediatamente: è avvincente, asciutta, crudele ma non morbosa. Il racconto degli abusi, la descrizione delle vite interrotte e spezzate di troppi ragazzini abbandonati a se stessi e cresciuti in istituti malsani e popolati di ceffi sempre pronti ad approfittare di chi non ha la forza né la possibilità di ribellarsi – anche e soprattutto bambini e ragazzini – è efficace, da pugno nello stomaco. Non indulge però mai nel particolare scabroso, nella ricerca di uno stile che possa scioccare oltremisura il lettore, basta già la triste realtà a prostrare e indignare abbastanza le coscienze.
Siamo stati chiamati, come cittadini e parte integrante di questo sistema complesso, a decidere dei meccanismi con cui si fanno le leggi, con cui i partiti che eleggiamo e che ci rappresentano dovrebbero intervenire a gestire la nostra vita quotidiana. E dovrebbero farlo – come i principi delle vere democrazie stabiliscono – cercando l’accordo più ampio per proteggere tutte le fasce di popolazione, per cercare un cambiamento di comune intesa, piuttosto che imponendosi con la forza di un numero parlamentare che spesso non rispecchia nemmeno gli equilibri reali.
Quando ti approcci a una serie-tv dai per scontata la presenza di certe convenzioni di genere, dei limiti che ingabbiano le puntate in inferni autoconclusivi, di cliché appositamente inseriti per mantenere alta l’attenzione del pubblico, anche a costo di sacrificare pezzi di trama e svolte diverse per il carattere di alcuni personaggi.
Un articolo, però, non è un romanzo e da qualche descrizione oggettiva del reale bisognerà pur partire per far comprendere la ‘stra-ordinarietà’ di una mostra, che non è soltanto un percorso lungo e totalizzante sulla vita di un artista a tutto tondo; è anche, in tutti i suoi aspetti tecnici e stilistici, un’esperienza innovativa, un modo tutto nuovo – quadridimensionale – di esporre la cultura e l’arte al visitatore, senza appoggiarsi solo alla sua vista, senza sollecitare solo la sua mente.
Ultimamente, però, mi è capitato sempre più spesso di lasciare il cinema in uno stato di profondo disappunto. Se dovessi dire qual è il film che in questo 2016 mi ha fatto ridere più genuinamente – senza forzarmi alla risata, senza giocare sporco su argomenti di per sé ridicoli come produzioni di gas corporee varie ed eventuali – direi «Zootropolis». Se dovessi dire quale film mi ha commosso ed è andato più a fondo nel mio immaginario, direi «Alla ricerca di Dory». Se dovessi accennare a quale film avesse un uso più spregiudicato e originale della sceneggiatura, direi «Deadpool».
Li avete visti i trailer su YouTube, no? Io ho capito che avrei visto Suicide Squad quando la Warner ha diffuso a tradimento un trailer con Bohemian Rhapsody in sottofondo. E come fai a non andare a vedere un film che ha una canzone del genere nella colonna sonora?!
Poi ho scoperto che c’era Viola Davis a fare la donna “tosta-e-bastarda” di turno, che c’era Margot Robbie che faceva Harley Quinn, che c’era Will Smith a fare Deadshot, Jared Leto che interpretava il Joker più pappone di sempre (e che agonia tutti i Ledger!fag che hanno rivoltato il web in questi mesi) e, insomma, ero già lì a urlare al capolavoro.
Ieri sera, 15 Luglio 2016, c’è stato un golpe fallito in Turchia, mentre io me ne stavo bel bella al “Silvano Toti” Globe Theatre di Villa Borghese a guardarmi Gigi Proietti che interpretava l’Edmund Kean di Raymund FitzSimons. E, non vi preoccupate, vi parlerò di Edmund Kean e di Gigi Proietti, non delle implicazioni politiche di quello che è accaduto in Turchia.
Credo che il primo scopo di un film sia quello di intrattenere – per lo meno di questo tipo di film. Ecco, X-Men – Apocalisse ha centrato in pieno l’obiettivo: è un film dalla trama lineare, classica, con un antagonista molto potente e assetato di ulteriore potere, un parterre di protagonisti già sviluppati nei due capitoli precedenti e portati alle estreme conseguenze, nuove reclute che scalpitano per presentarsi e impossessarsi del proscenio nei capitoli successivi.
Elio era stato chiaro: non solo il concerto non sarebbe stato uno stanco riciclo di vecchi successi ma avrebbe lanciato il nuovo album, Figgatta de Blanc, alternando novità a cavalli di battaglia capaci di far rivoltare tutto il palazzetto in un unico coro di battaglia. Per citare le sue stesse dichiarazioni, sarebbe stato uno spettacolo in grado di far impallidire The Wall.
Civil War è un film isterico è saltellante, prima di tutto nella gestione della trama. Oscilla fra l’action movie e il thriller psicologico senza riuscire a pescare il meglio da nessuno dei due generi. Non ha l’asciutta compattezza dell’action movie, non riesce a tenere sempre la tensione alzata al massimo, proprio nel tentativo di dare spazio alla riflessione, risicata in pochi dialoghi, messi al momento sbagliati e condotti in maniera poco intelligente. Le scene d’azione, pur coreografiche e in alcuni casi di fortissimo impatto – a differenza di Age of Ultron, che si era dimostrato carente anche da questo punto di vista – sono spesso svolte a velocità aumentata, quasi a volerne comprimere lo spazio per infilarne più di una in un tempo ristretto, quanto può esserlo le appena due ore e mezza in cui si è cercato di parlare di tutto e il contrario di tutto.