Confesso che ciò che mi ha attirato verso la lettura è stato, prima di tutto, il fatto che Takeshi Obata avesse curato i disegni, oltre al fatto che la trama del film mi avesse appassionato parecchio. Ho constatato con piacevole stupore che, però, i fatti narrati in “All you need is kill” (che è di genere seinen quindi più adulto della media dei manga shounen a cui siamo abituati, quando pensiamo ai fumetti di combattimento giapponesi) erano parecchio più pesanti di quelli del film né che il lieto fine a tutti i costi era assicurato.
Il primo dato che risalta da questo film è che si rivela godibile anche come stand alone. Per chi, come me, non aveva mai visto prima un film della serie – sì, nonostante il mio amore per i blockbuster esagerati – non c’è stato problema a seguire la vicenda né a capire i rapporti fra i personaggi (a proposito, credo che Simon Pegg nelle vesti di Benji sia diventato il mio personaggio preferito nel giro di mezza apparizione ma non è di questo che siete venuti a leggere quindi torniamo al film).
Prima di tutto il chi. La protagonista di “Quando c’era Marnie” è Anna, una ragazzina ormai dodicenne che ha più di qualche problema a relazionarsi con le persone, per non parlare degli attacchi d’asma, che la colgono in situazioni di particolare tensione. Per curare questa malattia, la sua tutrice – su consiglio del medico – manda Anna in vacanza da due lontani parenti. È qui, nell’aperta campagna dell’Hokkaido, che comincia l’avventura estiva della nostra protagonista ed è qui che Anna incontra e stringe amicizia con la Marnie del titolo. Dopodiché tutto il film sarà un crescendo di scoperte.
Ho comprato questo libro attirata dalla fascetta in copertina, che recitava: “Il libro dell’autore che ha ispirato Grand Budapest Hotel”. Avendo molto apprezzato il film, ho comprato il libro a colpo sicuro ma, già dopo aver sfogliato le prime pagine, mi sono resa conto che l’ispirazione non è nata tanto e solo dai fatti narrati da Zweig quanto dallo spirito di cui è informata tutta l’opera.
“Ant-Man” è un film nella media dei film supereroistici, non ci prova neanche per un minuto a essere qualcosa di diverso dall’ennesima parabola sull’ennesimo maschio bianco trentacinque-quarantenne che ha solo bisogno di un’altra possibilità per cambiare vita e diventare un eroe.
Dire che “Pixels” era un film imbarazzante, senza né capo né coda, è come sparare sulla Croce Rossa ma è la realtà dei fatti. Dal primo all’ultimo fotogramma la coerenza narrativa, il passaggio da una scena all’altra, la caratterizzazione dei personaggi, lo scambio di battute fra di loro, tutto sembra frutto di una sceneggiatura messa in piedi da un tram (cit.) team di quindicenni in piena tempesta ormonale che non riescono a raggiungere la sufficienza neanche nei temi scolastici.
Devo fare subito un po’ di appunti “tecnici” e “stilistici” al libro: è una biografia scritta nello stile più piatto e cronachistico che abbia mai letto. Confesso che le uniche biografie che ho letto in vita mia sono quelle di personaggi storici famosi (tipo quella su “Carlo V” di Gerosa, che mi ha segnato i sedici anni in bene) quindi suppongo che invece ci sia bisogno di usare le pinze, quando si parla di gente ancora viva o con parenti viventi che hanno diritti di copyright pure sulle sillabe del tuo nome. Mi è sembrato di leggere un tema scolastico, con qualche erroraccio di consecutio temporum che non so se imputare alla traduzione o proprio all’autore originale del libro.
Ho sempre trovato uno dei punti di forza dello Studio Ghibli proprio questa capacità di emozionare lo spettatore attraverso la “magia delle piccole cose”, senza per forza dover mettere in campo epici duelli (che pure in alcune opere non mancano) e tragedie disumane. Ecco, “La storia della principessa splendente” sa far affezionare e commuovere puntando sul racconto dei più quotidiani e apparentemente banali momenti di vita in un Giappone medievale, intrecciandoli agli aspetti fantastici di quella che resta pur sempre una fiaba. Se così l’esordio del film ricorda quello del più occidentale Pollicino e sfrutta l’occasione per ritrarre un dolcissimo quadretto familiare, che ruota interno all’innaturale rapida crescita di Principessa Splendente (è quello il significato di “Kaguya” in giapponese); la seconda parte del film ricorda quei racconti europei di principesse irraggiungibili che mettono alla prova i propri pretendenti con prove iperbolicamente assurde.
Partiamo dalla novel: “Il blu è un colore caldo” è un’opera prima e si vede. Si vede perché ha tutti i difetti di quest’ultima: un tratto di disegno ancora in sviluppo, una narrazione non sempre fluida, un eccesso di lirismo tragico che in alcuni punti rischia di rendere la vicenda quasi paradossale. Non voglio massacrare la novel, in fondo per molti passi mi è piaciuta, alcune pagine mi hanno davvero emozionata, ma è pur sempre un lavoro ancora acerbo, che contiene tutti gli errori tipici di chi comincia a mettere sul foglio la sua prima storia compiuta.
L’inizio del concerto era previsto per le 21.00 ma la band che fa da apripista (i “Nothing but thieves” da Londra, carini, tengono bene il palco e il loro frontman sembra il gemello ritrovato di Matthew Bellamy, almeno nella voce) comincia a suonare alle 20.40 e finisce alle 21.30. Dopodiché trentacinque minuti di lunga, estenuante attesa che mi ricordano perché preferisco i concerti negli auditorium. No, non me la smenate con la storia che un vero concerto lo si vive solo nel prato antistante al palco, perché il raro sentore caprino di umano molto stagionato in Luglio inoltrato non è qualcosa che rende l’atmosfera di un live più vissuta e palpitante.