Quella voglia matta di saltare nello schermo e abbracciare Charlie Brown
Io sono sempre stata una grandissima fan dei “Peanuts”. Hanno fatto parte della mia infanzia fianco a fianco con i fumetti di Topolino e quelli di Mafalda, avevo a casa vecchi numeri di “Linus” con le strisce storiche pubblicate sopra, avevo due o tre di quei volumetti che pubblicava la Baldini Castoldi Dalai con la prefazione bellissima di Umberto Eco, mi sono fatta regalare per il Natale dei miei sedici anni due dei volumoni editi in Italia che raccolgono le strisce divise per decennio.
Insomma, io amo i Peanuts, di quell’amore viscerale che solo il tempo e la familiarità con i personaggi in cui ti sei identificata, per cui hai sofferto e con cui hai riso possono farti nutrire. Ho lo sguardo deformato del fan di vecchia data, quando si parla dell’opera di Charles Schulz.
Ergo avevo una paura mostruosa di andare a vedere il primo lungometraggio in 3D al cinema. Paura di vedermi rovinata l’infanzia da un film che banalizzasse la portata del fumetto originale, perché già dai trailer avevo cominciato a sentirmi male, con il terrore che diventasse l’ennesima storiaccia americana del ragazzino sfigato che impara a diventare figo e uniformarsi alle regole per conquistare l’ambito “Premio Gnagna™”.
Sono finita a guardare le ultime scene del film coi lacrimoni agli occhi peggio di una bimba di cinque anni, questo vi fa capire quanto invece il film mi abbia emozionata e sorpresa in positivo.
Quando qualcuno si ricorda come usare il 3D
Io non ho nulla contro il 3D, anzi. Sono una di quelle “integrate” (per usare un gergo caro a Umberto Eco) che ogni volta che vede una nuova sciccheria tecnologica si emoziona come un bimbo davanti all’albero di Natale e – ad averci la disponibilità economica – avrei la casa ingombra di cazzatine molto cool e futuristiche. Quello che mi ha sempre dato fastidio è che le potenzialità del mezzo non vengono affatto sfruttate.
O ti ritrovi stupidi giochi prospettici col mostro che – WOAH THERE – sembra uscire direttamente dallo schermo e mangiarti la faccia – mamma, che paura – o semplicemente ti trovi davanti un pessimo rendering e delle robe improponibili che manco la Dingo Pictures.
Invece con questo film sono rimasta piacevolmente stupita di come un mezzo di animazione così avanzato sia riuscito a restituire perfettamente la delicatezza e l’impalpabilità del tratto tremolante e leggerissimo di Schulz, una roba così eterea e fiabesca che certe volte, a leggere le strisce dei “Peanuts”, pareva di toccare le nuvole con mano.
Il lavoro che è stato fatto sulle animazioni in computer grafica è stato pazzesco. C’è anche un’intervista a Steve Martino, regista del film, che racconta di come in tre anni di lavorazione lo staff abbia avuto accesso a tutto il materiale disponibile e abbia creato un character design contemporaneamente fedele alla tradizione ma anche completamente nuovo, incrociando la diversa evoluzione dei personaggi nel disegno di Schulz. Ecco, il film ha quei colori pastellosi e quella stessa atmosfera leggera dei fumetti ed è meraviglioso.
Mi spingo ad affermare che questo film è una coccola per lo sguardo, una manina dolce che ti si posa sul petto e ti riscalda come il piumone nelle fredde mattine invernali, quando è Domenica e non devi uscire di casa e – ah, che soddisfazione! – è meglio che marinare la scuola con la scusa della febbre.
La bellezza di quest’animazione computerizzata che sembra essere agli antipodi dello stile scarno ed essenziale della matita di Schulz sta proprio nella capacità di replicare quello stile fotogramma dopo fotogramma, renderne perfettamente la vivacità, assecondarne la sfuggevolezza invece di ingabbiarlo in una serie di forme troppo piene, troppo definite, eccessivamente reali per un immaginario che si muove sempre sul filo, a metà fra il mondo eterno ed eternamente immutabile delle strisce e i riferimenti fin troppo umani da cui pescano Charlie Brown e i suoi amici.
Alla fine è vero che siamo un po’ tutti Charlie Brown
Questa stessa leggerezza, questa dolcezza quasi melanconica che ti strenua l’animo fino a farti sciogliere in lacrime – non di tristezza, né di felicità, ma di languida malinconia – è tutta restituita dalla trama, che è dolce e semplice, senza inutili orpelli, ma prende una sua decisa direzione e la segue fino alla fine.
La magia la fa tutta un sapiente uso del materiale originale, che viene riproposto in alcune delle avventure che Charlie Brown vive nel corso del mezzo anno scolastico che gli resta prima delle vacanze estive, e ci riproietta nell’universo delicato e divertentissimo delle gag dal risvolto sempre un po’ amaro che caratterizzano come un marchio di fabbrica le storie quotidiane dei Peanuts.
Questo film è una vera e propria storia di formazione – sono fissata con ‘sto termine, chiedo venia – la storia di un Charlie Brown che si libera della condanna a provare e riprovare senza mai riuscire del fumetto, perché entra in una dimensione nuova, quella del film, che invece di farsi riproposizione ciclica degli eventi diventa trama lineare che parte da un punto A e arriva a un punto B.
Non è una critica al fumetto di Schulz, tutt’altro, ma il significato vero di cosa sia l’adattamento di una storia da un medium all’altro. I personaggi dei Peanuts sono tipi – più che stereotipi – inconsumabili e permanenti che hanno bisogno di restare ingabbiati nelle loro idiosincrasie, per mantenere sempre alta quella tensione costante verso una realizzazione che non deve arrivare. Cosa accade se Linus si separa finalmente dalla sua amata coperta? Cosa accade se Charlie Brown smette di arrendersi e finalmente, per una volta in vita sua, riesce a combinare qualcosa di buono? Cosa succede se Schroeder abbandona il piano giocattolo per avvicinarsi a un pianoforte vero? E se Lucy affronta i problemi di fondo del suo caratteraccio e diventa psicologa di se stessa, prima che degli altri? Che i Peanuts finiscono o cambiano, per scavalcare il formato della striscia quotidiana e diventare una storia regolare, che prima o poi ha una fine. Perdono la loro immortalità e diventano tanto, forse troppo umani.
Non accade così per il film. Il film deve avere un inizio, uno svolgimento e una conclusione e sappiamo benissimo che genere di emozioni contrastanti prova lo spettatore, quando si trova davanti a una storia che resta “appesa”, magari per riattirarlo in sala con un sequel di cui nessuno aveva bisogno. “Snoopy & Friends” non fa quest’errore.
“Snoopy & Friends” accompagna con delicatezza Charlie Brown e lo spettatore verso un percorso di crescita, costellato di fallimenti ed errori in cui sei “vincente” se non ti arrendi mai, se continui a crederci, se smetti di dirti che essere Charlie Brown non è poi questo granché, se finalmente ti rendi conto che per vivere bene non devi essere diverso da quello che sei, ma accettare che sei quello che sei e non quello che dovresti essere e andare avanti.
Si è dibattuto sul fatto che “Snoopy & Friends” fosse un film per bambini più che per adulti ma non credo sia del tutto vero. Al di là del dato di fatto che in sala di adulti ce n’erano molti e si emozionavano e ridevano persino più dei bambini, il film si approccia alla storia semplicemente da una prospettiva diversa. E se è vero che in 88 minuti di film non può recuperare tutto il peso filosofico e fatalista del fumetto, che però vanta alle sue spalle cinquant’anni o quasi di serializzazione, è altrettanto vero che così superficiale e semplicistica la resa non è.
C’è meno filosofica rassegnazione nella rappresentazione di idiosincrasie di cui tutti noi adulti soffriamo nella vita reale e c’è più voglia di raccontare una storia di crescita in cui l’happy end non è forzato e non è scontato e soprattutto non passa il messaggio sbagliato che basta usare la forza del cuore per raggiungere il proprio obiettivo. Bisogna impegnarsi, soffrire, fallire, cadere e rialzarsi innumerevoli volte ma soprattutto restare fedeli a se stessi per raggiungere una realizzazione che non riguarda il riconoscimento altrui delle proprie capacità ma il proprio auto-riconoscimento di ciò che davvero si è in grado di fare, quando si smette di avere pregiudizi su se stessi.
E quindi?
E quindi cosa restate qui a leggere la mia recensione, sciocchi?! Correte al cinema, portatevi i fratellini, le sorelline, i nipotini, i figlioletti, andateci da soli o con amici adulti, ché riscoprirete l’amore per i Peanuts, se li conoscevate già, anche solo un pochino, e li farete scoprire anche a chi è più piccolo di voi.
“Snoopy & Friends” è una bella storia sull’amicizia, senza retorica tronfia e senza morali contraddittorie, è un film che rilassa e rallegra, e, sì, è anche un ottimo omaggio ai “Peanuts” del fumetto, qualcosa che vi fa venir voglia di tornare a casa e rileggere le vecchie strisce. O comprarvi una bella raccolta, ché siamo sotto Natale ed è un regalo che può essere soltanto gradito.
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