Ieri pomeriggio mia sorella mi ha trascinata al cinema a vedere l’ultimo film dell’inedito duo De Niro – Hathaway, perché lei adora De Niro e io adoro la Hathaway. E viceversa.
Non nel senso che loro adorano noi, nel senso che De Niro piace anche a me e la Hathaway piace anche a lei… vabbè, la finisco.
Allora, da dove cominciare? Devo dire che la cosa più inaspettata del film, più che lo stagista settantenne, è stato il tema principale. A giudicare dal titolo italiano (in inglese c’è un più sobrio “The Intern”) e dai trailer mi aspettavo un film che in modo ironico trattasse del dramma dei pensionati con pochi soldi in tasca, che arrotondano con lavoretti vari ed eventuali, perché il mercato del lavoro oggi è questo.
Invece mi sono ritrovata davanti a una tirata retorica sulla donna in carriera che non deve mollare mai e non deve rinunciare al suo lavoro solo per far contenti marito e figli.
Ora, qui ci dobbiamo intendere un attimo: a me il film è piaciuto e anche tanto ma prima di procedere a dire cosa ho apprezzato della visione, preferisco sbrodolarmi prima su quello che mi ha infastidito.
La retorica, dicevo sopra. Se c’è una caratteristica del cinema americano che mi ha sempre irritato è la presenza di una morale a tutti i costi, del voler dare allo spettatore un insegnamento, come se stessero leggendo una di quelle fiabe per bambini dallo scopo educativo. Il problema più grosso di un’impostazione del genere, a parte il fatto che rende l’opera d’arte un manifesto propagandistico – e pure se fosse la propaganda più giusta del mondo, si devia un po’ dallo scopo del film, che sarebbe quello di raccontare una storia – è di far scadere i dialoghi nel didascalico e questo è molto brutto. Alla fine la storia può anche trasmettere un messaggio (anzi, lo fa, sempre), il punto è che bisognerebbe lasciare questo compito agli eventi inquadrati e permettere a ogni spettatore di trarre le sue conclusioni a fine proiezione. Nancy Meyers fa proprio l’errore di trasformare alcuni dialoghi dei personaggi in veri e propri pipponi femministi e, ehi, io sono la prima femminista a sventolare la bandiera del movimento ma se Jules e Matt cominciano a discutere del proprio rapporto parlando come un post di Tumblr, io ci resto un po’ male (e dire che quella scena mi ha pure commosso quindi tanto fatta male non era).
Il secondo difetto del film è l’essere un’occasione mancata. Non c’era bisogno di sfruttare l’espediente del vecchio stagista per parlare delle difficoltà di una donna in carriera e dei pregiudizi che la circondano. Lo spunto per parlare di un problema altrettanto attuale come quello delle persone più che mature che non riescono ad arrivare alla fine del mese perché fregate da un mercato del lavoro che non lascia scampo a nessuno si dissipa completamente quando ti rendi conto che Ben Whittaker, il personaggio interpretato da Robert De Niro, problemi di denaro non ne ha e va a fare lo “stagista senior” per sconfiggere la noia. L’occasione viene in parte colta solo perché Ben finisce per rivestire i panni di una sorta di “padre di tutti”, che con la sua esperienza fa da guida ai più giovani e li aiuta a riconsiderare i propri problemi da un punto di vista diverso. Che è un po’ quello che anziani e adulti in generale hanno invece smesso di fare nei confronti dei più giovani, mettendosi a competere con loro a chi è più Peter Pan.
Ecco, il primo lato positivo di questo film è che Ben Whittaker è un anziano e si comporta da tale. Non cerca di mettersi in competizione con i suoi giovani colleghi, non prova a sedurre il suo capo, che anagraficamente potrebbe essere sua figlia, non si dà al lifting, ai festini e sul luogo del lavoro preferisce presentarsi con la classica ventiquattr’ore e il completo giacca e pantalone impeccabilmente pulito e stirato.
E tutto il rapporto fra Jules Ostin, la fondatrice della start up “About the Fit”, e Ben si sviluppa come quello fra un padre adottivo e una figlia un po’ irrequieta. È il lato più tenero del film, indubbiamente, insieme alle interazioni dello stagista senior con gli impiegati poco più che ventenni – finirà persino per ospitare uno di loro in casa – e ai suoi deliziosi siparietti con la figlia di Jules.
A tratti il film sembra quasi un marchettone a favore delle start-up, che al momento suppongo tirino molto negli Stati Uniti, neanche si pone il problema della solidità di imprese così volatili, che crescono troppo in fretta, né dei ritmi disumani a cui i lavoratori sono sottoposti (non dico che siamo ai livelli di “Il diavolo veste Prada” ma quasi). Alla fine risulta poco chiaro anche il motivo per cui Jules dovrebbe assumere un amministratore delegato che gestisca l’azienda al suo posto: prima pare che AtF stia crescendo troppo in fretta, poi viene fuori che invece il problema è che Jules vuole un po’ di tempo libero per dedicarsi a un marito che, dopo essersi ritirato dal suo lavoro ha cominciato ad accusare la frustrazione del “padre casalingo”.
Nonostante la gestione un po’ maldestra del rapporto fra Jules e suo marito Matt, però, ho comunque apprezzato lo sforzo di voler dipingere una situazione diversa, dove gli errori non portano per forza di cose alla distruzione di una coppia e dove un uomo può anche imparare a farsi indietro per amore della sua donna. Il fastidio risalta sempre per lo stesso motivo: l’eccesso di retorica che rende certi dialoghi e certe scene poco verosimili.
Ma, se devo essere sincera, tutto scolora in secondo piano di fronte alla Hathaway e a De Niro. Sono deliziosi insieme. Al di là del fatto che trovo Anne Hathaway una brava attrice, espressiva come non sanno esserlo molte e molti dei suoi coetanei, la sua chimica con De Niro era pazzesca. È il classico caso in cui un film dalla sceneggiatura carina ma non eccessivamente brillante finisce per reggersi sui protagonisti e, per fortuna, sono due personalità di un certo calibro, che sanno tenere la scena. De Niro è una garanzia, ok, ma è sorprendente vedere la naturalezza con cui la Hathaway comunica con lui, la familiarità che viene a crearsi nel corso delle vicende, finché Ben e Jules finiscono per assomigliare davvero a una sconclusionata coppia padre-figlia.
Così alla fine della fiera gli si perdona la retorica e le sbavature a “Lo stagista inaspettato”. Si poteva fare di più, ok, ma alla fine è una bella favola moderna (le mise indossate dalla Hathaway sono stupende), che ti riconcilia con la vita e ti fa passare un pomeriggio piacevole al cinema, ti coccola senza chiederti troppe tribolazioni e poi c’è Rene Russo nei panni della fiamma di Ben che è meravigliosa.
Non vi aspettate, insomma, divagazioni sui massimi sistemi ma, se avete voglia di un divertimento leggero e senza volgarità, “Lo stagista inaspettato” fa al caso vostro.
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