L’estate scorsa Tom Cruise portò al cinema “The Edge of Tomorrow”, film fantascientifico che riprendeva lo spunto del loop temporale di “Ricomincio da capo” ma senza le marmotte e con molto più drama.
Apprezzai molto il film e i toni adrenalinici e ipercinetici della storia, ancora di più quando scoprì che non si trattava di una sceneggiatura originale ma di un film tratto da un manga in doppio volume, “All you need is kill”, a sua volta adattamento dell’omonima light novel di Hiroshi Sakurazaka (una catena di Sant’Antonio, in pratica).
Confesso che ciò che mi ha attirato verso la lettura è stato, prima di tutto, il fatto che Takeshi Obata avesse curato i disegni, oltre al fatto che la trama del film mi avesse appassionato parecchio. Ho constatato con piacevole stupore che, però, i fatti narrati in “All you need is kill” (che è di genere seinen quindi più adulto della media dei manga shounen a cui siamo abituati, quando pensiamo ai fumetti di combattimento giapponesi) erano parecchio più pesanti di quelli del film né che il lieto fine a tutti i costi era assicurato.
I fatti. Una razza aliena conosciuta come “Mimic” ha invaso il pianeta Terra. Sono esseri particolari e mostruosi, sprovvisti di qualsiasi parvenza antropomorfa che possa renderli più familiari a occhi umani. Questa loro differenza di base – nonché il fatto che abbiano bisogno di vivere in un ambiente inquinato e tossico per l’essere umano – li rende diretti antagonisti della specie umana. Non c’è punto di contatto, o muoiono loro o moriamo noi.
All you need is kill, appunto.
La storia comincia in medias res, anzi no, dalla fine. Dal momento in cui Keiji Kiriya, il protagonista della nostra storia, muore sul campo nel suo primo giorno di lotta contro l’avanzata dei Mimic.
O così pare.
Nella realtà dei fatti, Keiji si renderà presto conto di essere rimasto bloccato in un loop temporale di cui non conosce la causa ma che si rivela abbastanza disperante da costringerlo, almeno all’inizio, a tentare prima la fuga e poi il suicidio pur di sfuggire alle sue morse. Il tutto avviene mentre le forze armate statunitensi arrivano di rinforzo in terra giapponese, allo scopo di aiutare l’esercito giapponese ad arginare l’avanzata dei Mimic. Con loro c’è Rita Vrataski, la “Full Metal Bitch” che è riuscita a guidare le forze della resistenza umana alla vittoria contro una razza aliena che sembrava virtualmente invincibile.
Rita è la co-protagonista di “All you need is kill” e una buona porzione del secondo volume – nonché la sua copertina – sono dedicate al suo passato e al motivo che l’ha resa così forte, pur restando il POV di Keiji predominante nella narrazione.
Questa è la trama in breve, che non vi sto a spoilerare, perché è una di quelle storie in cui bisogna tuffarsi a capofitto ignari e inconsapevoli di quello che ci aspetta. Posso solo dire che il finale si è rivelato coerente con le premesse della storia e con il suo stesso titolo. Ho molto apprezzato questo piccolo tesoro diviso in due volumi, è stata una lettura rapida e scorrevole, nonostante la pesantezza degli eventi mostrati.
È una storia di fantascienza ma soprattutto di guerra e così, di fianco ad armi futuristiche e alieni dall’aspetto mostruoso, ci si trova più e più volte a dover affrontare le tragedie che si portano dietro gli scontri militari, l’efferatezza delle morti, fra schizzi di sangue e corpi maciullati, compagni che cadono come mosche per incapacità propria o di chi dovrebbe fornire loro supporto.
Interessante è il modo in cui è stata svolta la tematica temporale del “loop”. Scadere nella noia sarebbe stato facile: un loop temporale è una pedissequa ripetizione degli eventi che ruotano attorno al protagonista, almeno finché non si accorge di ciò che sta accadendo e cerca di cavarsi dall’impiccio in un modo o nell’altro. Ecco, posso dire che l’avvio è stato subito bruciante né la narrazione dei primi loop è risultata troppo lenta e troppo pedante.
“All you need is kill” è certamente quel genere di fumetto che mantiene molto alta la suspense, non hai tempo di sentirti al sicuro, esattamente come Keiji, che ha solo il tempo necessario a capire come combattere l’invasione aliena e venire a capo della causa scatenante del loop prima di morire per l’ennesima volta e riavviare la sua giornata da capo. Sono più di centocinquanta i loop a cui va incontro nel corso della storia; quando però si accorge che anche Rita Vrataski sa, la soluzione del dilemma sembra farsi sempre più vicina.
Ho molto amato il personaggio di Rita, il modo in cui è stata costruita, la forza che ha espresso pur nel corpo minuto di una donna di un metro e cinquanta dal viso angelico. Si sa, i fumetti giapponesi non sono esattamente campioni di pari opportunità quando si tratta di ritrarre le donne, riducendole troppo spesso a fan service o spalle che hanno bisogno di essere salvate. Rita invece è persino più estrema e determinata di Keiji nell’intento di uccidere gli alieni – e il suo passato spiega bene la radice del suo astio estremo verso i Mimic – e non si limita semplicemente ad allenarlo, per poi far sì che sia lui ad avere l’ultima parola contro l’invasore. Il colpo finale Rita e Keiji se lo giocano a testa e croce, potrei quasi dire, ma la situazione è ancora più complessa e non la approfondirò qui proprio perché SPOILER.
È sorprendente, anzi, che di tutte le figure che spiccano nella trama, quelle che hanno un ruolo più preponderante nella lotta di Keiji siano due donne, la stessa Rita e Shasta, il meccanico di quest’ultima, colei che ha forgiato la sua spettacolare ascia taglia-Mimic e che aiuterà Keiji a equipaggiarsi di un’arma simile.
Sia Keiji sia Rita crescono molto, nel corso della narrazione. La seconda cresce attraverso i flashback che danno corpo al suo personaggio, togliendola dall’aura di mistero e infallibilità che la circonda all’inizio del manga. Il primo cresce… morendo. Ogni loop in cui ricasca lo forgia, rendendolo più versato nel combattimento fisico, da un lato, e più conscio di quanto drammatica e poco eroica sia una guerra, dall’altro, nel momento in cui ti ci ritrovi in mezzo e sperimenti giorno dopo giorno la tragedia di vederti annientare – spesso in modi parecchio trucidi – da alieni tutt’altro che pietosi.
Penso che “All you need is kill” sia una di quelle storie da groppo alla gola, che non ti abbandona neanche dopo aver voltato l’ultima pagina, capace di mostrare la guerra attraverso un velo di crudeltà e di irrimediabilità che il film aveva avuto il merito (o forse la colpa, in realtà sono molto positiva verso “The Edge of tomorrow”, che pure ha cambiato genere, prediligendo l’azione al dramma e all’introspezione del fumetto) di edulcorare. È davvero convincente il modo in cui viene svolto e portato alle estreme conseguenze il tema del “loop”, così come sia Keiji sia Rita sono ben caratterizzati, sviscerati a fondo nel loro essere prigionieri di un giorno che si ripete all’infinito.
È una storia che ti si aggroviglia alla bocca dello stomaco, anche grazie ai disegni curati ed elaborati di Obata (che qui usa lo stile più barocco e affilato di “Death Note”, piuttosto che quello più lineare e morbido di “Bakuman”), che non risparmia i toni cupi e le riflessioni amare, dove il lieto fine non è scontato e non basta crederci con tutto il cuore per sconfiggere certe brucianti evidenze che mettono in forse anche la possibilità di vincere.
L’unica avvertenza è di leggerli tutti d’un fiato, i due volumi che compongono la storia, perché l’unità narrativa non s’interrompa, per sentire fino in fondo la tensione, l’ansia e la speranza folle che innervano le azioni dei due protagonisti. “All you need is kill” scorre compatto e concitato come un film d’azione ma conservando tutti i pregi d’introspezione psicologica di un seinen, pur nello spazio ridotto di due soli volumi.
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