«Non ho mai attribuito tanta importanza alla mia persona da sentire il desiderio di raccontare ad altri la storia della mia vita. Molte cose sono dovute accadere, infinitamente più di quante ne spettino a una sola generazione in termini di eventi, catastrofi e prove, prima che trovassi il coraggio di cominciare un libro che avesse me stesso come protagonista, o, per meglio dire, al centro della narrazione. Niente mi è più estraneo che il volermi porre in primo piano, tranne che nelle vesti di commentatore in una conferenza con proiezioni: è il tempo a regalare le immagini, io fornisco soltanto le parole che meglio vi si adattano, e quello che racconterò non sarà tanto il mio destino, quanto quello di un’intera generazione – la nostra generazione unica, irripetibile, che come nessun’altra nel corso della Storia è stata gravata di eventi».
Si apre con queste parole “Il mondo di ieri”, una sorta di autobiografia con cui Stefan Zweig racconta la sua vita ma – soprattutto – racconta il mondo che cambia nel periodo che va dal 1881 al 1941.
Ho comprato questo libro attirata dalla fascetta in copertina, che recitava: “Il libro dell’autore che ha ispirato Grand Budapest Hotel”. Avendo molto apprezzato il film, ho comprato il libro a colpo sicuro ma, già dopo aver sfogliato le prime pagine, mi sono resa conto che l’ispirazione non è nata tanto e solo dai fatti narrati da Zweig quanto dallo spirito di cui è informata tutta l’opera.
Perché in effetti “Il mondo di ieri” parla davvero di un mondo perduto, un contesto sociale, politico, economico e culturale che è destinato a mutare bruscamente al volgere della Prima Guerra Mondiale e a provare a stento a sopravvivere fra gli ultimi spasmi mortali nel ventennio che intercorre fra la Grande Guerra e la Seconda. È una fine – brusca, dolorosa, non facile da assimilare – il cui inizio Zweig vive già al volgere dei trentasei anni dunque con tutta la lucidità e la maturità necessaria per capire con fin troppa profondità in che genere di cambiamento epocale si ritrova suo malgrado coinvolto.
Di questo libro ho apprezzato moltissime cose, posso dire che mi è rimasto nel cuore in tanti passaggi e fino all’ultima pagina. Da un punto di vista prettamente stilistico, la lettura è stata per me davvero gradevole. Zweig ha un modo di scrivere molto chiaro e scorrevole, pulito e levigato all’estremo, non arido ma sicuramente privo di fronzoli e circonvoluzioni pretenziose. Non è mai oggettivo, per carità, perché quest’autobiografia che si fa analisi ragionata dei fatti storici resta pur sempre un diario personale di un singolo osservatore e non il giudizio scientifico di uno storico. Non ha un taglio cronachistico e telegrafico ma sa comunicare al lettore sensazioni e situazioni in maniera molto efficace.
Qua e là fa sorridere l’ingenuità e la meraviglia con cui Zweig, che ha molto viaggiato e molto vissuto, racconta dei suoi incontri con i suoi “idoli” letterari, musicali e artistici in generale. Sarà un effetto lampante di quel distacco fra chi ha vissuto nel “mondo di ieri” e chi è giovane adesso, nel 2015, e forse potrà trovare un po’ naif il modo in cui l’autore parla, con parziale ma onestissimo affetto, delle persone per cui prova una stima infinita. Non è un particolare che rovina la lettura, anzi, è forse la testimonianza più vera di quanto sia autobiografico questo lungo racconto.
E come autobiografia, in realtà, “Il mondo di ieri” è abbastanza atipico. Alla fine Zweig ha questa abitudine bellissima di aprire ognuno dei suoi capitoli (che sono, soprattutto all’inizio, suddivisi per “temi”, anche se seguono un ordine cronologico preciso) partendo dalla sua esperienza personale per poi spiccare il volo e spostare tutta l’attenzione dello scritto sulle persone e sul mondo che lo circonda, sui posti che ha visitato, sugli effetti che i cambiamenti storici hanno prodotto a livello globale.
È un libro di storia, a suo modo, perché la storia la fanno anche le cronache, i diari, i resoconti. È la storia vista dagli occhi di uno scrittore, che si è trovato – pur non al centro degli eventi – molto vicino all’occhio di quel ciclone che per due volte si è abbattuto sulle terre europee (emblematico resta il fatto che Zweig abbia abitato per anni a Salisburgo, in una villa poco distante da quella in cui abitava nientemeno che Adolf Hitler). In quanto poi ebreo austriaco, Zweig ha il doppio vantaggio (o forse dovrei dire “svantaggio”, viste le fughe a cui è stato costretto per scampare ai campi di concentramento) di poter raccontare quest’articolazione drammatica della nostra storia contemporanea dal punto di vista di un connazionale di uno dei più terribili dittatori della storia ma anche di una vittima dei suoi misfatti.
E in effetti è stata una lettura che mi ha aperto nuovi orizzonti, perché di storia ne ho studiata tanta ma questo sguardo dall’interno della migliore società (da un punto di vista economico e culturale) degli Ebrei austriaci mancava. Mancava e aggiunge un alto tassello al quadro generale di situazioni che le Guerre Mondiali hanno contribuito a squassare e distruggere, in molti casi.
Soprattutto, ho trovato questa autobiografia molto attuale in certi passaggi e considerazioni che Zweig si dilunga a fare, traendo conclusioni dagli eventi di cui è stato direttamente o indirettamente testimone. Riflessioni sulla scuola, sulla politica, sui giornali, sulla guerra e sul caos economico, sociale e culturale che alla guerra inevitabilmente segue, che danno da pensare. Danno da pensare a chi vive oggi in una situazione di altrettanto autunno culturale, in un mondo che è stato di nuovo squassato da altri cambiamenti e da altre guerre, forse fuori dai nostri confini ma che certamente hanno influenzato radicalmente il nostro modo di vivere. Cambia la tecnologia, cambiano i vestiti ma le reazioni umane alle situazioni difficili sembrano ripetersi in quel “corsi e ricorsi storici” di cui parlava Vico.
È una lettura malinconica, certamente. Zweig, nelle ultime pagine dell’ultimo capitolo, si scusa se una certa ombra possa essere calata su tutta la sua scrittura e in molti capitoli della sua autobiografia (che scrive nel 1941, cioè all’infuriare della Seconda Guerra Mondiale, in volontario esilio a Petropolis, in Sudamerica). Un’ombra, un velo di malinconia si avverte davvero durante tutta la lettura, la sensazione che anche i ricordi più felici di Zweig siano ormai irrimediabilmente macchiati dal presagio di una fine imminente, che in retrospettiva rende ancora più oreziose certe esperienze irripetibili della sua gioventù.
In modo simile ma ancora più melanconico di quello mostrato in “Grand Budapest Hotel” la bellezza di un mondo fastoso, antiquato, illuminato di feste e serate a teatro viene calpestata dagli stivali delle milizie armate che cominciano a proliferare nelle città, fosco preludio urbano a quella che sarà una delle guerre più totali ed efferate mai combattute dagli esseri umani. E se la Prima Guerra Mondiale aveva impoverito le masse e trasformato completamente l’assetto politico di molte Nazioni (Zweig, da austriaco, parla molto bene del vero e proprio shock che il suo popolo subisce, di fronte alla prospettiva dello smembramento dell’Impero austro-ungarico e della fine del governo della dinastia asburgica), l’avvento di Hitler spazza via gli ultimi residui di un’ingenuità e un piacere di vivere che erano stati la marca della gioventù spensierata e vivacissima dell’autore, che aveva girovagato in lungo e in largo e non solo all’interno dei ristretti confini europei.
Quello che rende quest’autobiografia particolare è proprio il fatto che di spunti autobiografici ve ne sono ma finiscono rapidamente in secondo piano, per fare spazio agli eventi esterni, agli incontri fondamentali della vita, ai rivolgimenti politici, alle riflessioni sulla società – austriaca, parigina, berlinese – in cui Zweig vive in quel determinato momento. In realtà della sua vita privata arriviamo a sapere, alla fine del libro, molto meno di quello che ci aspettiamo aprendo un’autobiografia. Non ci sono date né particolari sulla sua vita privata, non sappiamo che si è sposato, se non quando accenna al fatto che sta divorziando per risposarsi, ad esempio. Anche gli accenni alle sue residenze vengono posti nella narrazione solo come diversivo per parlare di altro: di come si vive dopo la guerra o di che razza di vicini di casa puoi ritrovarti accanto senza sapere quanto peso avranno nella vita europea degli anni a venire.
Le uniche righe che si sprecano sulla vita personale di Zweig sono quelle che riguardano la sua produzione artistica e l’evoluzione della sua scrittura, dalle prime poesie alle sceneggiature teatrali fino ad arrivare ai primi romanzi compiuti. È una lettura intensa, intrisa di riflessioni e fatti, una vera manna per chi ama la storia e l’arte.
Insomma, si sarà capito che è un libro che consiglio, almeno a chi ha una passione per la scrittura e la storia e potrà trovarvi dentro molti spunti interessanti – forse non sempre originali ma sempre profondi e ben ragionati – a proposito di entrambe le materie.
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