Il ragazzo è intelligente ma non si applica.

Ant-Man

Se la Marvel fosse uno studente e “Ant-Man” un tema, questo è il giudizio che si meriterebbe.

La Marvel ha fatto i suoi compiti a casa e, questa volta, è riuscita a produrre una storia che aveva una sua coerenza interna e una trama, tirando su un film decisamente più decente di “Age of Ultron”. Non che bisognasse sforzarsi molto, capiamoci. Qualsiasi film è meglio di AoU, tranne forse “Lo Squalo 4” e “Amici come noi”.

Dev’essere stato il confronto fra i due film a provocare tanta esaltazione nei fan Marvel, probabilmente. Non saprei spiegarmi altrimenti perché “Ant-Man” sia già stato definito da mezza critica internazionale come un film eccezionale.

[ATTENZIONE POSSIBILI SPOILER LEGGERI QUA E LÀ]

“Ant-Man” è un film nella media dei film supereroistici, non ci prova neanche per un minuto a essere qualcosa di diverso dall’ennesima parabola sull’ennesimo maschio bianco trentacinque-quarantenne che ha solo bisogno di un’altra possibilità per cambiare vita e diventare un eroe.

Sì, è un po’ la trama base di moltissimi film sul mercato negli ultimi anni e non solo quelli d’azione. Sì, Scott Lang è un protagonista piatto come una sogliola (allevia il fastidio il viso dolce di Paul Rudd, che è adorabile, lo confesso da non fan del film e del personaggio) e, sì, come da tradizione di casa Marvel, Darren Cross è un antagonista tanto piatto da fare il paio con personaggi come Ronan di “Guardiani della Galassia” o Malekith in “Thor: The Dark World”, con l’aggravante che spunti per sfaccettare il suo personaggio sono stati lanciati e poi completamente polverizzati da una sceneggiatura che sembrava scritta da un branco di cinquenni in gita scolastica.

Ma andiamo per ordine.

La trama è delle più banali, è iper-banale, è oltre il banale, è un banale che si ripete all’infinito nel regno quantistico della banalità e fa in modo da distruggere qualsiasi spunto drammatico e qualsiasi picco di tensione della storia originale. Nei fumetti Scott Lang ruba per mantenere la sua famiglia e finisce in galera per questo. Esce di galera ed è costretto a ricominciare a rubare per salvare la vita di sua figlia, che ha un problema congenito al cuore. È così che entra in possesso dell’armatura di Ant-Man. Nel film Scott ruba per vendicarsi dell’azienda disonesta che truffava i clienti e l’aveva licenziato e torna a rubare per un aleatorio desiderio di fare soldi ed essere all’altezza di sua figlia – che lo ritiene l’eroe del suo personale mondo –, che una ex-moglie brutta e cattiva e un nuovo fidanzato della suddetta moglie scemo e incapace gli tengono lontana. Già su questi particolari potrei sprecare fiumi di parole. Ci troviamo di fronte all’ennesima narrativa perdonista nei confronti di adulti Peter Pan che fanno cazzate con famiglia a carico ma hanno solo bisogno di una seconda (o ennesima) possibilità per riscattarsi. Poverini, però, hanno la sfortuna di avere attorno persone che “non capiscono”, perché troppo occupate ad assumersi le proprie responsabilità invece di aspettare che i suddetti padri di famiglia si decidano a crescere.

Tutti i personaggi che ruotano attorno a questo moderno eroe che ha solo bisogno di “possibilità” sono altrettante macchiette abbastanza piatte. E se uno come Hank Pym si distingue e spicca prima di tutto perché interpretato da un ottimo Michael Douglas, poi perché trattasi dell’unico fra i “buoni” con abbastanza lati negativi da poter essere colto come personaggio contraddittorio, il resto è tutto fumo e niente arrosto.

O meglio, tutti personaggi sono lì al puro scopo di ruotare attorno al protagonista ed esaltare o ostacolare i suoi piani di diventare un padre-eroe, comportandosi da macchiette. Tacendo degli amici galeotti che permettono a Scott di rubare l’armatura e cominciare a vivere la sua avventura – e non si capirà mai perché Pym abbia messo gli occhi su uno come Lang, così incolore da non avere particolari doti per cui spiccare nella folla – la più grande delusione, a parte il solito antagonista, è Hope (sic!) Pym, figlia dello scienziato e interpretata dalla bella Evangeline Lilly, mortificata in un caschetto nero che non le dona per nulla.

Hope si può ascrivere alla lunga galleria di “donne forti” che popolano i film di questo periodo. Donne sempre in tiro, efficienti, multitasking, perfette, versate per il combattimento e per la vita di società, molto più adulte della loro giovane età ma molto gradevoli allo sguardo nonostante l’indole da Rottermeier. Hope ha tutte le carte in regola per essere la nuova Ant-Man: conosce come le sue tasche l’azienda da cui dovrebbe essere trafugato il costume del Calabrone, quell’azienda ha contribuito a farla crescere, sa come agisce e pensa l’antagonista, è versatissima per il combattimento, sa comunicare con le formiche, è nata per quel ruolo.

Ha un solo problema.

Non è il protagonista maschio di questa storia. Allora, mi chiedo, perché non farne una donna ottimamente capace nell’amministrazione aziendale e darle un ruolo di spalla e di diversivo, mentre il protagonista agisce, piuttosto che renderla l’ennesimo robot tuttofare che poi sulla trama conta meno che zero (a parte che come allenatrice di Scott, perché alla fine le donne possono aspirare solo a fare da madri, vere o vicarie che siano)?

Come molti film Marvel, “Ant-Man” è pieno di battute forzate e spesso poco divertenti, che tentano di alleggerire a tutti i costi anche le situazioni più drammatiche, annacquando ogni tensione emotiva in una pozza di azioni rapide a caso. È un film colmo di situazioni scontate e inutili al procedere della storia e alla caratterizzazione, anche se ha il merito di non spaesare troppo lo spettatore e di risultare, nel complesso, godibile.

Il problema maggiore resta sempre quello di guardare una grossa sit-com in due ore scarse piuttosto che un film d’azione e fantascienza che parla di supereroi. Anche i momenti tragici finiscono sviliti in questa rassicurazione continua di un pubblico che si pretende il più vasto possibile: nell’ansia di accontentare ogni tipo di palato, si finisce per non solleticare davvero nessuno.

L’antagonista è, come sempre, il più grande tallone d’Achille della trama – insieme alle motivazioni del protagonista, naturalmente. Darren Cross è schizofrenico ma non nel senso clinico del termine, bensì nella misura in cui si comporta in maniera illogica, vive un complesso d’inferiorità nei confronti di Hank Pym, che prima è stato per lui un padre putativo e poi l’ha buttato via quando non gli è più servito. Vuole compiacerlo ma vuole anche farlo arrabbiare. Va a casa sua per ucciderlo ma poi lo vuole alla presentazione della sua nuova invenzione. È pelato e sacrifica ignari agnellini per il bene di esperimenti che li riducono in poltiglia, caratteristiche che ridicolizzano un personaggio che, è stato deciso, dev’essere cattivo. Perché sì e perché ha un rapporto lavorativo/di complicità con la bella Hope e dunque è pure potenziale concorrente di Scott.

Qualsiasi spunto che potesse approfondire il suo comportamento apparentemente insensato si scioglie come neve al sole di fronte all’inevitabile precipitare degli eventi, che deve portare al final show down con tanti effetti speciali, spericolate piroette, botte da orbi e persone amate minacciate nel corso dello scontro.

“Ant-Man” insomma sacrifica qualsiasi spunto di diversità e originalità per ripiegarsi sugli stessi registri narrativi di sempre. Tutto cambia perché nulla cambi, insomma.

Non che gli spunti positivi non ci siano, va detto, altrimenti il “dipende” non gliel’avrei assegnato neanche morta. Le battaglie fra esseri “minuscoli” sono state ben rese, anzi, le ho trovate particolarmente azzeccate e coreografiche, apprezzandole molto di più in confronto allo sfacelo caotico di “Age of Ultron”. Gli effetti speciali sono usati per rendere queste battaglie da “mega-minimondo” in modo convincente e la scena in cui Scott si rimpicciolisce per la prima volta nella vasca del bagno del suo appartamento è una di quelle che rendono meglio il senso di spaesamento che si prova a ritrovarsi minuscoli in un mondo di giganti.

Le formiche che Ant-Man e la famiglia Pym controllano sono carinissime o forse è la me settenne ancora innamorata di “Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi” a parlare. Fatto sta che gli sciami di diverse specie di formiche, che aiutano Scott a introdursi nella sede delle Pym Industries, sono state spalle degne di un eroe che si fa chiamare “Uomo Formica”.

Il film si rivela così mediamente godibile ma alterna rari momenti di quasi originalità a una generale piattezza che non fa mai davvero decollare la storia. Non c’è modo di aggrapparsi ai braccioli della sedia e tremare, perché – anche se sai che il protagonista vincerà – sei in ansia per la sorte sua e dei suoi amici. È tutto così svilito a favore dello scherzo continuo e di un alleggerimento forzato di ogni situazione, che non hai tempo neanche per disperarti sull’unica e un po’ ridicola morte che dovrebbe dare un tocco di “realismo” a una storia che non ha mai provato a essere realista.

L’impressione che se ne ricava, alla fine di queste due ore al cinema, è che la Marvel ha prodotto l’ennesimo film di passaggio verso l’evento – quello sì importantissimo per l’universo cinematografico della Casa delle Idee – che sarà “Civil War”. E così la stessa sciattezza, la stessa approssimazione che si rintracciava in “Age of Ultron” spicca anche in “Ant-Man”. Sarà anche la storia travagliata che c’è stata alle spalle della produzione di questo film (potete googlarla ma, in breve, il suo regista originario ha abbandonato il progetto dopo divergenze d’idee sulla sceneggiatura) a renderlo l’ennesima opera tirata via, facilona, scontata.

“Ant-Man” mi ha provocato strani brividi di diniego, quando mi sono trovata a sorridere o mormorare “che carini!” quelle rare volte in cui sembrava esserci un rapporto effettivo fra Scott e sua figlia (e non delineato solo ed esclusivamente attraverso le parole di tutti), perché mi suonava “sbagliato” divertirmi nel contesto di un film che ha così tante falle. Falle che si riassumono nel suo essere un film che non ha pretese, nel tornare a dimostrare l’assioma – così tante volte messo in crisi dalle opere cartacee – che i fumetti sono soltanto letteratura d’intrattenimento di bassa qualità per un pubblico di bambini troppo cresciuti e non anche storie che possono essere metafora di un mondo reale che sa essere ingiusto e troppo crudele.

Non mi si fraintenda. I film leggeri sono sempre i benvenuti ma là dove “Guardiani della Galassia” vinceva, perché nasceva come film comico e sapeva mantenere un certo grado di elegante demenza fino alla fine, “Ant-Man” è qualcosa di amorfo, che doveva essere una commedia caustica e finisce per venire impacchettato come “film per famiglie”, salvo vedersi ficcata dentro di straforo una morale a buon mercato che la Disney – che caccia i soldi, alla fin fine – sembra sempre apprezzare molto.

È un peccato perché di spunti per una storia un po’ meglio orchestrata ce n’erano. Né mi dà molto da sperare la possibilità che “Ant-Man” abbia un seguito. Anche l’introduzione, paventata sul finale del film, di Hope nei panni di Wasp non credo porterà particolari barlumi di novità a una trama che probabilmente si concentrerebbe sul suo rapporto romantico con Scott.

Il mio solo augurio è che, al prossimo film per cui sarà scritturata, Evangeline Lilly si veda assegnare una parte un po’ più complessa. È una brava attrice e merita decisamente di più che essere sempre il personaggio femminile “forte”, inserito nella trama un po’ in ossequio alle quote rosa e un po’ per essere il romantic interest di qualcun altro


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