La settimana scorsa, approfittando del MySky e di fin troppo tempo a disposizione, ho deciso di recuperarmi una Palma d’Oro del Cannes di due anni fa, attirata dalle recensioni super-positive delle fonti ufficiali e dalle impressioni fin troppo negative di amici e conoscenti che l’avevano già visto.
Non contenta, ho acquistato anche la graphic novel da cui il film è stato tratto, “Il blu è un colore caldo”, incuriosita dal fatto Julie Maroh – l’autrice – non fosse rimasta molto soddisfatta del lavoro fatto da Abdellatif Kechiche.
Partiamo dalla novel: “Il blu è un colore caldo” è un’opera prima e si vede. Si vede perché ha tutti i difetti di quest’ultima: un tratto di disegno ancora in sviluppo, una narrazione non sempre fluida, un eccesso di lirismo tragico che in alcuni punti rischia di rendere la vicenda quasi paradossale. Non voglio massacrare la novel, in fondo per molti passi mi è piaciuta, alcune pagine mi hanno davvero emozionata, ma è pur sempre un lavoro ancora acerbo, che contiene tutti gli errori tipici di chi comincia a mettere sul foglio la sua prima storia compiuta.
Così, per esempio, non ho apprezzato il procedere “a scatti” della trama. Certi passaggi mi sono risultati troppo bruschi, male o per nulla spiegati. È vero che la storia si snoda attraverso i ricordi che la protagonista (Clementine e non Adele) affida al suo diario segreto quindi non possono che essere incompleti ma si tratta pur sempre di una narrazione che va consegnata a un pubblico di lettori.
Forse pesa anche il fatto che la storia sia intrisa di una sottile retorica. Il punto nodale di “Il blu è un colore caldo” è quello di dimostrare, attraverso una storia che non finisce bene, come i pregiudizi e l’ottusità delle persone possano distruggere la vita di una ragazza, in questo caso di Clementine, troppo condizionata dai giudizi della sua famiglia d’origine per poter vivere con serenità il suo legame con Emma, che pure diventa una delle costanti più importanti della sua vita. Non contesto il finale tragico e non contesto nemmeno che si possa usare una storia per trasmettere un messaggio ma è pur vero che, se tutta la narrazione finisce per coincidere solo con il messaggio e ogni scena viene costruita in questa funzione, il piacere del raccontare scade in una lezione di morale. I passaggi sono bruschi, sì, perché ogni salto va a concentrarsi su episodi ben precisi della vita di Clementine: la scoperta del suo orientamento sessuale, il rifiuto di esso da parte sua e delle persone che le stanno attorno, un legame con Emma che comincia “col piede sbagliato” (Emma è già impegnata con un’altra donna, quando decide di intrecciare una relazione clandestina con lei) e continua allo stesso modo, fra litigi, cacciate di casa, incomprensioni e mancanza di qualsiasi tipo di comunicazione. La vita di Clementine sembra l’apologia del “Mai ‘na gioia”.
Al di là delle scelte di trama, che restano personalissime, ciò che ha guastato la lettura è stato proprio il modo di raccontare e mostrare la storia, questo procedere a balzi e scossoni che mi ha consegnato una lettura per alcuni tratti incompleta e che non giustifica la nomea di capolavoro che l’opera si è fatta in giro. È una buona opera prima, sicuramente, ha il pregio di raccontare in modo realistico le difficoltà di una coppia omosessuale, non lascia spazio a retoriche da “gli omosessuali sono più speciali e il loro amore è più puro” e, seppure fallisce nella capacità di far entrare fino in fondo il lettore nella storia, presenta elementi che la rendono comunque una storia dolceamara, piacevole da leggere se non si arriva carichi dell’aspettativa di trovarsi di fronte all’opera definitiva.
È molto azzeccata la scelta di lasciare il mondo di Clementine in grigio, colorando soltanto i particolari blu, quel blu che si accende nella sua visione la prima volta che incrocia, in modo assolutamente casuale, Emma per strada. Maroh sa essere delicata nella descrizione delle scene di sesso, non volgare né esasperata, fa trasparire lo smarrimento iniziale di Clementine di fronte a desideri che non riesce a gestire e non riconosce, così come il suo senso di completezza, quando finalmente capisce cosa le piace davvero. In alcuni passaggi è davvero una lettura tenera, come quando un’ancora adolescente Clementine ritrova in un locale gay Emma e il cuore si ferma, letteralmente, di colpo. Tutto questo illustrato da uno stile che si diceva ancora grezzo ma che pure circonfonde tutti i personaggi di un’aura quasi ovattata, che contrasta decisamente con i toni cupi e intrisi di irrimediabile fatalità della sceneggiatura.
“Il blu è un colore caldo” è una storia d’amore, di crescita, di scoperte e fallimenti ma resta una storia sincera, nonostante o proprio grazie a tutte le ingenuità di cui è costellata, e raggiunge certamente l’obiettivo di far capire che inferno possa essere vivere negando continuamente se stessi e i propri sentimenti, perché ci è stato insegnato che sono “sbagliati”.
Ora prendete tutto questo.
L’avete fatto?
Bene, buttatelo nella spazzatura, perché non troverete neanche un briciolo di questo spirito nel film di Kechiche.
Voglio essere brutale come finora ancora non sono stata in questo blog. “La vita di Adele” pare un porno-chic su due lesbiche da consegnare a un target equamente diviso fra guardoni, troppo timidi per cercare i video zozzi sul web, e radical chic, che torneranno a casa e si fregeranno di aver visto un film “scomodo”, sì, per le scene di sesso esplicite e non per i temi che tratta.
Ma come, non ha vinto una Palma d’Oro? Non dovrebbe essere un film splendido?
Sì, e “La solitudine dei numeri primi” ha vinto il Premio Strega, questo non lo rende automaticamente un capolavoro della letteratura italiana.
Sono rimasta abbastanza annoiata dalla visione e per alcuni tratti ho anche vissuto spiacevoli momenti di disagio. No, non per le scene di sesso fra due donne. Tutt’altro che “scomode” – come detto da qualcuno che voleva obiettare alle critiche al film – si sono rivelate noiose, pedanti, morbose. Ricordo ancora le polemiche, partite dalle stesse due attrici protagoniste, scatenatesi all’indomani della vittoria del film a Cannes, a proposito del fatto che Kechiche fosse stato un regista tutt’altro che facile da trattare. Peggio ancora, è stato latamente accusato dalle due donne di essersi rivelato fin troppo insistente nelle sue richieste, là dove si dovevano girare le famose scene di sesso che costellano gratuitamente il film.
Il risultato si avverte fortissimo in ogni inquadratura che riguarda Adele (non ho ancora capito il motivo del cambio di nome, devo essere sincera) ed Emma. “La vita di Adele” è stato scritto e girato da uno sguardo prettamente maschile. È null’altro che la rielaborazione di cosa possa essere una storia d’amore fra due donne dall’ottica di un guardone curioso. Anzi, d’amore non c’è assolutamente nulla in questo film. Tutto ciò che capisci quando arrivi, non sai neanche tu con quale forza di volontà, all’ultimo minuto dei centoottantaquattro e rotti che compongono il film, è che le due protagoniste sono due porcone che ci danno dentro. Basta.
Non c’è altro, non c’è una singola scena fra Emma e Adele insieme che non rimandi al sesso che vorrebbero fare o che faranno fra poco; che non sia intrisa di sottotesti e doppi sensi, come se il regista non vedesse l’ora di spogliare le due attrici e farle finire su un letto. Come ho già detto sopra, la novel può avere tante mancanze e, sicuramente, sono più i momenti di litigio e contrasto che quelli di riappacificazione e comprensione fra Emma e Clementine ma… parlano. Esclusa l’unica scena di sesso esplicito del fumetto, Emma e Clementine parlano, si confrontano su chi sono e cosa vogliono essere.
La Emma e la Adele del film o fanno sesso o mangiano. Penso che “La vita di Adele” possa equamente essere suddivisa in tre situazioni che ritornano ossessivamente: primi piani sulla bocca delle protagoniste che mangiano; noiosi e infiniti discorsi pretenziosi sulla filosofia e sui libri, che mi facevano ribaltare gli occhi nel cranio finché non finivo a fissarmi il cervello da sola; sesso o comunque primi piani di carne ignuda, because of reasons.
Potete immaginare tre ore di questa tortura? Perché, al di là del fatto che il film sia una riedizione in chiave porno-chic e pretenziosa della novel, il lato peggiore è la noia senza scampo che ti assale dalla prima all’ultima inquadratura. “La vita di Adele” pare più essere una storia sul nulla – privata pure del finale tragico, che costituiva il climax della storia originale e aleggiava sul lettore fin dalla prima pagina – di quelle brutte, però. Non una cosa alla “Educazione sentimentale” di Flaubert, che finge di parlarti di niente e invece ti offre uno spaccato della società parigina di metà Ottocento e ti porta fino all’ultima pagina in uno stile gradevole e impeccabile.
Macché.
Lì dove un buon regista avrebbe potuto riempire i vuoti della narrazione originale, dare muscoli e pelle a uno scheletro che non aveva bisogno di essere modificato, Kechiche ha ben pensato di tagliare via tutto ciò che dava anima alla storia e lasciare quello che meno importava. Prima di tutto, “La vita di Adele” è completamente decontestualizzato. Nell’opera originale Clementine ha quattordici anni nel 1994, sicuramente un periodo storico meno aperto all’omosessualità del 2013, che giustifica anche una maggiore chiusura di Clementine verso se stessa e i suoi desideri. Nel film non si sa, non si capisce, non importa, parliamo di donne nude. Di tutti i momenti che costellano la novel sui pregiudizi verso l’omosessualità resta solo il formidabile litigio davanti alla scuola fra Adele e una sua compagna di classe, probabilmente uno dei pochi momenti in cui la mia attenzione si è risvegliata. L’evento-chiave della vita di Clementine – quando la sua relazione con Emma viene scoperta ed entrambe vengono cacciate di casa – è stato completamente cancellato dal film, per fare spazio a un salto temporale brusco e mal gestito con una bella zoomata sul corpo nudo di Adele. Tanto per gradire. Non c’è alcun finale tragico, nessun accenno alla depressione devastante che porterà Clementine alla morte, la sua personalità viene banalizzata e completamente appiattita su quella di una persona curiosa di fare sesso con una donna. Punto.
Posso dire che la parte più paradossale è arrivata proprio sul finale. Nella storia originale, Clementine non riesce a contenere la gioia per aver rivisto Emma ed essere stata nuovamente accettata da lei. Morirà letteralmente di crepacuore. Nel film mi sono trovata, invece, davanti a una sequenza a dir poco tragicomica in cui una Adele, che non so definire in altro modo se non infoiata, si mette a succhiare le dita di Emma al tavolino di un bar perché la desidera troppo. Perché alla fine Kechiche torna sempre lì. Se il fumetto aveva dimostrato che non c’è idillio perfetto neanche in una coppia omosessuale, che alle difficoltà di tutte le coppie normali deve aggiungere anche l’ostracismo di una società ancora divisa fra l’accettarle e il rifiutarle; Kechiche feticizza il loro legame, sottolineando continuamente solo l’impulso carnale che spinge Adele verso Emma, in quello che sembra un inno al “W la Gnokka e ki se la tokka“. Non c’è altro.
E così Adele stessa diventa niente più che un’ameba, la concretizzazione del desiderio maschile di vedere due donne assieme perché sì. Non si spiega più la sua rottura con Emma, il suo tradirla – che nel fumetto aveva senso, in quanto Clementine non era solo instabile ma soprattutto non riusciva mai davvero ad accettarsi per ciò che era – i suoi problemi mentali, tutto viene spazzato via per far posto soltanto a noiose riunioni fra radical chic che parlano di viaggi, di metafore a casissimo, di libri che non ha letto nessuno ma tutti si fregiano di avere in casa.
E poi i silenzi. Come se già il film non fosse stato abbastanza pesante di suo con queste premesse, Kechiche si diverte a ficcare qui e là lunghe pause, che non sono fatte di silenzi significativi perché gli sguardi valgono più di mille parole.
No.
Sono silenzi che hanno il solo scopo di far indugiare la macchina da presa sui volti e i corpi di Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux in un modo a dir poco morboso. Penso che più fastidiose delle scene di sesso siano state solo le riprese sulle loro bocche che mangiavano e il doppio senso in questa precisa scelta è così chiaro che ti chiedi come abbiano fatto le due attrici a resistere tanto a lungo sul set senza sbroccare.
Il film finisce con Adele che si allontana per strada, verso non si sa dove, lo stesso posto dove va tutta la storia, cioè un nulla indefinito che ti riempie di stupore e scetticismo quando finalmente partono i titoli di coda.
Se, con i dovuti però, consigliavo comunque la lettura della novel senza troppo aspettarsi, “La vita di Adele” non la consiglio a nessuno. A meno che non abbiate tre ore da perdere in una giornata assolutamente vuota e già noiosa di suo, è una visione che potete risparmiarvi. Tutto ciò che ti resta dentro, a visione terminata, è l’indefinibile e frustrante sensazione che quelle tre ore avresti potuto impiegarle per fare qualcosa di socialmente utile, come sbrinare il frigo o pulire il forno, invece di far incantare il cervello su ragazzi che discutono male di arte, filosofia e letteratura.
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