Ieri sera, sempre a Capannelle, sempre per “Rock in Roma”, s’è svolta l’unica tappa italiana dei Muse per la promozione del nuovo album “Drones”.
È stato il delirio.
No, sul serio. Ricordate quando qualche post precedente dicevo che l’organizzazione era migliorata e si stava abbastanza bene sul prato, coi tappetini? Well, the statement I made was calculated but, man, was I bad at math.
Non avevo visto l’Ippodromo invaso da più di trentacinquemila persone provenienti da tutta Italia (e pure da un bel pezzo d’Europa).
La viabilità romana fa già schifo di suo ma l’incrocio fra via di Torricola e l’Appia Nuova sembra l’opera del costruttore di qualche bolgia infernale, i parcheggi sono insufficienti e mal sfruttati e, comunque, la gente ben pensa di parcheggiare su una strada che è di fatto a una corsia e mezzo, senza illuminazione e con curve spericolate che manco il circuito di Nürburgring in Germania.
Dentro era il solito budello contorto di postazioni del dj, banchetti da rosticciere, padiglioni dei tokens, stand del merchandising ufficiale. Rifate il percorso al contrario, quando trentacinquemila persone s’imbottigliano tutte insieme in un lungo vialetto impolverato con due miseri e altrettanto affollati sbocchi e vedrete che un percorso attraversabile in due minuti a piedi ne chiederà venti. E fuori, naturalmente, è la guerra totale.
L’inizio del concerto era previsto per le 21.00 ma la band che fa da apripista (i “Nothing but thieves” da Londra, carini, tengono bene il palco e il loro frontman sembra il gemello ritrovato di Matthew Bellamy, almeno nella voce) comincia a suonare alle 20.40 e finisce alle 21.30. Dopodiché trentacinque minuti di lunga, estenuante attesa che mi ricordano perché preferisco i concerti negli auditorium. No, non me la smenate con la storia che un vero concerto lo si vive solo nel prato antistante al palco, perché il raro sentore caprino di umano molto stagionato in Luglio inoltrato non è qualcosa che rende l’atmosfera di un live più vissuta e palpitante.
E, insomma, ci siamo lamentati di quanto sia pessima la logistica del “Rock in Roma”, perché l’afflusso di pubblico è tale da richiedere una struttura totalmente differente. Ma questo concerto qualche lato positivo ce l’ha?
Essì che ce ne ha! Tantissimi, stiamo parlando di un concerto dei Muse!
Cerchiamo di essere seri e riferire questa serata con spirito cronachistico (ma anche no). Il concerto è stata un’unica, adrenalinica cavalcata di un’ora e quaranta, con un solo intervallo di un minuto prima che venissero suonate le ultime tre canzoni. Qualcuno si è lamentato che un gruppo del genere avrebbe dovuto suonare due ore e mezza: al Rock in Roma, che è manifestazione estiva, non mi è capitato di vedere un live che sforasse le due ore – se ci arrivava. Pretendere che sti tre cristiani zompassero, suonassero e sudassero con trenta gradi all’ombra anche alle dieci di sera per due ore e mezza è una punizione che non infliggerei neanche al mio peggior nemico.
Matthew Bellamy è un animale da palcoscenico, di quelli che attirano tutta l’attenzione su di sé, anche se sei uno spettatore incastrato nella seconda metà del prato e ti tocca vederlo muoversi sui due mega-schermi che affiancano il palco. Poco male. La voce di Matt è chiara, limpida, non perde un colpo fino all’ultimo accordo, Dom e la sua batteria sono una cosa sola e Chris è il perfetto contraltare alle uscite prorompenti di Matthew (e quando suona l’armonica per introdurre “Knights of Cydonia” pare uscito direttamente da film ambientato nel vecchio West).
Una cosa va detta subito: abbiamo capito che Matt e la sua chitarra elettrica sono sposati, ama suonarla e ci ha tenuto a farcelo sapere amoreggiandoci letteralmente sul palco per tutta l’ora e quaranta del live. Non saprei come altro definire il modo in cui l’ha tenuta in mano e suonata, senza staccare le dita praticamente mai – se non quando “Apocalypse Now Please” richiedeva un suo intervento al pianoforte – e addirittura accompagnando la transizione fra una canzone e l’altra con assoli disumanamente perfetti. Il che non gli impedisce di rivolgersi, di tanto in tanto, al pubblico italiano e ringraziarlo del calore di un’accoglienza oceanica.
Il repertorio è un fritto misto di vecchi e vecchissimi successi (con graditissime incursioni in “Origin of Symmetry” e “Absolution”) intervallati da alcuni dei pezzi del nuovo album, “Drones”, che pare un po’ il lato B di “2nd Law”, con contaminazioni da “Black Holes and Revelations”, ma va bene così, è un album delizioso e Matthew potrebbe anche decidere di produrre un cover album di canzoni napoletane, suonando “’O Zappatore” di Merola accompagnato da un mandolino elettrico, io lo comprerei comunque e lo eleggerei a disco dell’anno seduta stante. C’era persino un drone a riprendere il pubblico, tanto per tener fede al titolo dell’album e soprattutto c’era l’intero coro dell’Antoniano alle mie spalle che intonava malamente ma con impegno e passione ogni singola canzone Matthew tirava fuori (ma è un’esperienza piacevole, sempre meglio che essere attorniati da quelle mummie da concerto che stanno lì, apparentemente, solo per godersi le minuzie sonore e guai a chi osa aprire bocca per seguire un ritornello).
L’acustica è l’unico punto forte della manifestazione, va riconosciuto, e anche stasera non ha tradito, nonostante mi trovassi parecchio addietro rispetto al palco e il suono avrebbe potuto giungermi molto meno nitido. Il finale del concerto è stato accompagnato da un’esplosione multicolore di coriandoli e stelle filanti, mentre giganteschi palloni grigio scuro rimbalzavano sulla folla, quei momenti in cui l’isteria collettiva raggiunge livelli da esplosione di una bomba atomica, anche se credo che nulla potrà eguagliare il boato assordante che si è levato, quando la chitarra di Matt ha suonato i primi accordi di “Time is running out”. Lì, altro che delirio, stava scoppiando una guerra civile.
Come quella che c’era fuori dal parcheggio, fra vigili spaesati, abusivi che ti volevano vendere acqua e birra (“bere bere bere signori!”) a tutti i costi, macchine e motorini che si incagliavano all’uscita del cancello, genitori incazzati che cercavano i figli, umanità varia e disperata ammucchiata alle fermate dei pullman – che erano rimasti bloccati nel traffico, naturalmente – e persone che perdevano la testa a caso, che è sempre la cosa migliore da fare, quando il caos infuria.
Dall’esperienza di ieri sera ne abbiamo ricavato due insegnamenti: il Rock in Roma è una manifestazione che sta crescendo e guadagnando spettatori e ospiti illustri ma andrebbe ripensata la collocazione e la logistica (andrebbero anche rifatte parecchie strade di Roma ma non è ancora San Lorenzo, non posso mettermi a formulare desideri irrealizzabili); quando i Muse faranno nuovamente tappa in Italia, nella struttura adeguata quelle famose due ore e mezza di concerto non dispiacerebbero a nessuno.
Di sicuro non a me e ai trentacinquemila folli scatenati che c’erano ieri a Capannelle.
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