– La direzione pensa che la modificazione genetica aumenti il fattore “wow”.
– Sono dinosauri, sono già “wow”!
È lo scambio di battute fra Claire Dearing e Owen Grady e già da queste poche parole sembra che sia bastato un solo trailer a mettere una pietra tombale su qualsiasi velleità dell’ultimo sequel del brand di far cadere nel dimenticatoio “Jurassic Park III”.
Dinosauri geneticamente modificati per attirare più pubblico al parco? I dinosauri attirano già pubblico, che pretesto stupido.
Invece, fortunatamente, il risultato si rivela decisamente superiore alle attese.
Archiviato qualsiasi tentativo di ammazzare il povero t-rex di turno per dare più appeal alla storia, “Jurassic World” torna alle origini, ammicca ai personaggi e alle scene più iconiche del primo “Jurassic Park” e ci dà persino una spiegazione reale alla creazione dell’Indominus Rex (il dinosauro geneticamente modificato per provocare il “wow”, appunto) ben più solida della necessità di trovare nuove attrazioni per un pubblico costantemente affamato di novità.
Certo, il pubblico non si aspetti le profondità filosofiche dei dialoghi fra Hammond e gli scienziati mandati a prendere per valutare il parco giurassico. Niente accenni a “stupri di natura” o donne che ereditano la Terra o estemporanee illustrazioni della teoria del caos. Al di là di battute sul “fattore wow” e di accenni alla composizione genetica del nuovo mostro (ma qui si sfocia nella nozionistica da Wikipedia, più che nella filosofia scientifica) di discorsi ad alto livello ce ne sono pochini, almeno da un punto di vista scientifico.
Dall’altro lato c’è una meravigliosa introspezione (sono seria) sui dinosauri e il loro modo di interagire con gli esseri umani che ne fa davvero i protagonisti morali e materiali di questo sequel. Se da un lato si dovrebbe bacchettare Hollywood e la sua tendenza ormai dilagante a inserire famigliole “normali” allo sbando in qualsiasi film d’azione – tanto per rubare screen time a trame che già di per sé poco approfondite – si può tirare un sospiro di sollievo perché, eccettuati i primi cinque minuti di film, il focus si sposta sempre più via dai due fratelli che vanno in visita del Jurassic World e si concentra man mano molto più attentamente sui velociraptor, sull’Indominus, sul meraviglioso Mosasauro (googlare per credere) che infesta le acque del parco e in generale sulla ricca fauna di dinosauri che attirano frotte di visitatori.
“Jurassic World” più di tutto si è rivelato un film divertente, perché dà allo spettatore medio, quello che va al cinema perché è fissato coi dinosauri, ciò che cerca: dinosauri, appunto. Dinosauri allo sbando che seminano panico e terrore in orde di turisti sprovveduti. E da qualche parte del mondo sembra quasi di sentir riecheggiare il sospiro stanco del dottor Ian Malcolm, che starà probabilmente borbottando “caos!”, guardando le news al telegiornale.
“Jurassic World” offre l’azione, le ferite, le lotte selvagge fra i dinosauri, gli urli, le cacce nella foresta più buia e tanti morti dilaniati da denti aguzzi, in maniera molto similare a quanto avveniva nel primo film, forse con qualche sfumatura di cupezza in meno (ma tanta pena in più per i raptor, che da cattivi incontrastati finiscono per raccogliere il favore del pubblico, di fronte a un cattivo più cattivo di loro). C’è rapacità umana, manovre politiche e follie militari dietro la costosa progettazione di un dinosauro che non è più cattivo e più intelligente soltanto per amore del pubblico. E c’è, in fondo, una sottile (voluta oppure no? Dipende quanto credito vogliamo dare agli sceneggiatori) e attualissima denuncia al sistema capitalistico nel mostrare come il pubblico pretenda “prodotti” sempre nuovi, anche se si parla di animali (sottratti all’estinzione ma pur sempre viventi), così come nel dipingere le contraddizioni di un parco che, pur di non perdere la faccia davanti agli investitori, rischia di mettere in pericolo le vite di più di ventimila visitatori.
Ci si spaventa, ci si commuove, si ride molto, per le interazioni goffe ed esasperate fra Owen e Claire (quest’ultima un riuscitissimo incrocio fra una donna in carriera e quell’Arthur che detesta i bambini e vive solo del suo lavoro), per Owen “madre putativa” dei raptor; per i tacchi di Claire, così robusti da non spaccarsi nemmeno sotto la minaccia di un t-rex alle calcagna; per una lotta finale a raccontarsi quasi assurda ma a vedersi certamente epica, di quell’epicità che solletica il lato più bambino e meno razionale dello spettatore, quello innamorato delle squame, che in fondo vuole solo vedere i dinosauri darsele di santa ragione e darne tante al cattivo. E il finale della lotta è un tale climax di assurdo e grandiosità da strappare persino un caloroso applauso all’interno del cinema.
“Jurassic World” è un film che ammicca molto al suo pubblico e ha l’accortezza di recuperare rispettosamente l’eredità del primo film. Non ha l’effetto di dirompente novità del primo “Jurassic Park” e chi si aspettava qualcosa di seriamente epico e professionale resterà probabilmente deluso. Ma non è il deludente terzo capitolo e riesce a portarsi a un livello successivo anche rispetto al secondo film, approfondendo la direzione presa da quest’ultimo nel senso di avvicinare ancor più lo spettatore all’emotività dei dinosauri, che si rivelano, anche nel carattere, persino più interessanti delle loro controparti umane, nonostante non siano altro che costruzioni in CGI.
Ancor più del secondo, “Jurassic World” ha saputo mostrare le estreme conseguenze del folle sogno di Hammond: cosa sarebbe successo se il parco fosse stato aperto ai visitatori? La risposta è scontata ma lo svolgimento merita comunque una lunga e appassionata occhiata. E ci dice molto di cosa siamo diventati, se più ancora del progresso senza freni che manipola la natura, ciò che oggi ci spaventa è quanto siamo disposti a mettere quel progresso a servizio del profitto, anche contro ogni palese previsione negativa.
E dunque, osservando il fotogramma finale e l’orgoglioso ruggito del t-rex, si può concludere che questa volta la delusione non è dietro l’angolo: i dinosauri ci sono, sono tanti e sono pronti ad affascinare ancora e sempre gli spettatori anche a vent’anni di distanza.
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