Il 14 Maggio 2015 è uscito nelle sale italiane “Mad Max: Fury Road”, nelle parole del suo creatore – George Miller – non un sequel né un reboot della fortunata trilogia degli anni Ottanta ma una vera e propria rivisitazione. In questi tempi in cui una buona fetta dei brand che hanno avuto successo fra gli Ottanta e i Novanta vengono ritirati fuori dal cassetto e – previo restyling non sempre fortunatissimo – dati in pasto a un pubblico di nostalgici che il biglietto se lo compreranno, anche solo per rivivere le emozioni del passato (e non sempre ricavare impressioni positive dai nuovi adattamenti) non sollevare un sopracciglio scetticamente è quasi d’obbligo ma, almeno a Miller, il gioco è riuscito.
A onore del film va subito detto che aver affidato nuovamente la regia al suo creatore originale, in questo caso, è significato trovarsi davanti a un prodotto coerente, non un semplice revival del passato. Miller non ha parlato a caso di “rivisitazione”: basta guardare la trama del primo “Mad Max” per rendersi conto che il nostro è passato da protagonista incontrastato a spalla – all’inizio assai riluttante – di altri personaggi; al tema della violenza urbana che dilaga lì dove l’anarchia la fa da padrone, si sostituisce la prepotenza di chi ha il potere di controllare l’accesso alle materie prime e governare la popolazione secondo i propri capricci.
Come se già il tema della scarsità di risorse non fosse attuale, Miller ci mette dentro anche il problema del commercio di schiavi sessuali e delle donne sane usate come “riproduttrici” per figli in salute, lontani dai problemi fisici dei cosiddetti “emivita”, esseri umani sfiancati da malattie e tare genetiche che fanno parte dell’esercito di Immortan Joe, il ras della comunità in cui Mad Max viene forzosamente condotto.
Ci troviamo così in una distopia coloratissima, in cui il riverbero accecante del sole sulle dune domina la scena e, visivamente parlando, il film risulta sicuramente di grande impatto. I toni scuri sono banditi e nel deserto namibiano (in cui parte delle riprese sono state effettuate) c’è un tripudio di ocra e giallo e del rosso delle devastanti tempeste di sabbia in cui i nostri incappano nel corso della loro lunga fuga.
Il ritmo della storia si presenta altissimo fin dal primo inseguimento, a pochi minuti dall’inizio del film, e non è concesso allo spettatore riprendere fiato fino alla prima tempesta di sabbia. Nemmeno la presentazione del luogo da cui tutte le vicende si dipanano basta ad allentare la tensione e in una rapida carrellata Miller mostra, senza bisogno di far impelagare i personaggi in lunghi discorsi auto-esplicativi, come funziona questa distopia esageratissima, cruda e molto particolare.
Ed è proprio sulle tecniche con cui il film è stato girato che vale la pena di soffermarsi. Miller fa infatti ricorso a una tecnica di ripresa costantemente centrata sul focus della scena (stayforthecredits e bonehandledknife lo spiegano molto meglio di me), che non permette allo sguardo di disorientarsi; l’attenzione resta sempre concentrata sullo svolgersi dell’azione, tanto che le sequenze velocizzate degli inseguimenti non provocano mai stordimento né confusione nello spettatore. Sono momenti iconici, improvvisi lampi d’adrenalina che ricordano da vicino le inquadrature di un videogame. Sono quelle stesse inquadrature che non indulgono mai in maniera morbosa sui corpi femminili: seni e glutei non risaltano nemmeno quando una donna nuda è sulla scena; nemmeno quando sarebbe facile regalare del fan service allo sguardo, sfruttando le poche vesti delle spose che cercano di scampare alla prigionia a cui Immortan Joe le ha condannate.
Ed è proprio sulle donne che la seconda menzione d’onore va fatta a questo film: che si tratti delle spose di cui sopra o della vera protagonista di questo “Mad Max”, l’Imperatrice Furiosa, interpretata da un’ottima Charlize Theron, o delle amazzoni motorizzate che scorrazzano per il deserto, gli stereotipi sono banditi. Ognuna di loro ha una personalità differente e ben delineata: non tutte sono guerriere, non tutte sono giovani e forti e la stessa Furiosa manca di un braccio (sostituito da una protesi di metallo) e ha l’aria di una rude camionista, più che di un’etera e curatissima fata dei boschi.
Max, in questo contesto, finisce per essere una spalla di primo piano, accomunato a Furiosa da un’identica sete di redenzione, e le contende il palco senza rubarle però mai la scena. “Mad Max: Fury Road” è una rivisitazione contemporanea anche nella misura in cui riesce a trasformare le donne da vittime in pericolo a ingranaggi attivi e collaborativi di una trama che si muove inesorabilmente verso un finale solo in parte preannunciato – e non nelle modalità che le premesse del film lascerebbero presagire.
Miller finisce così per saper dare una dimensione differente al genere d’azione, costruendo un film dove i gesti dei personaggi raccontano molto più e molto meglio dei loro discorsi; dove “distopia” è sinonimo di un mondo folle, crudo, inverosimilmente realistico e di grande impatto visivo; dove emozioni intense e strazianti sanno farla da padrone quanto gli inseguimenti e gli spericolati combattimenti fra un camion-cisterna e un’auto da corsa modificata; dove c’è poco di convenzionale persino nelle riprese e nel modo in cui l’occhio dello spettatore è costretto a relazionarsi con un film d’azione che non è soltanto adrenalina pura.
“Mad Max: Fury Road” non è stato soltanto una rivisitazione convincente ma un film godibile pur non conoscendo la trilogia originale e la dimostrazione che “azione” non equivale semplicemente a corse spericolate e grande spreco di effetti speciali. Anche con una trama ridotta all’osso (e coerente in tutte le sue parti proprio perché priva di sovrabbondanze inutili), Miller ha saputo stupire, emozionare e mantenere la concentrazione alta fino all’ultimo, malinconico e glorioso fotogramma.
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