Sorrentino o lo si ama o lo si odia, è un dato di fatto. Credo che sia merito del modo in cui i suoi film sono costruiti, perché hanno sempre l’abilità di lasciare qualcosa nello spettatore: usciti dal cinema non è mai indifferenza quella che resta, quell’impressione di medietà che di un film ti fa, al massimo, esclamare “non è male”; che poi la sensazione provata sia positiva o negativa, resta alla sensibilità del singolo.
“Youth” non ha smentito l’assioma. Guardare questo film significa essere sommersi da una miriade di colori, suoni, sensazioni e situazioni che rimangono impresse negli occhi e nella mente molto dopo aver abbandonato la sala del cinema. D’altronde il cinema di Sorrentino è anche e soprattutto questo: narrazione per emozioni, più che per eventi legati da un rapporto di causa ed effetto. È un modo di svelare la storia allo spettatore che lascia tanto spazio all’interpretazione personale, al punto che probabilmente non ci saranno due singole persone che potranno dire di aver vissuto e compreso allo stesso modo ogni scena del film.
Inutile provare a fare paragoni con “La Grande Bellezza”, si tratta di storie diverse in ambientazioni diverse: lì avevamo davanti la vita dissoluta di uno scrittore perso fra i meandri della capitale, qui la visione della giovinezza e del mondo filtrata attraverso gli occhi della vecchiaia. Se un filo rosso si può rintracciare, è forse nel racconto della decadenza. Se “La Grande Bellezza” parlava della decadenza morale e materiale non di un solo uomo ma in fondo della società di un intero Paese, “Youth” parla della decadenza fisica e mentale di due uomini ormai profondamente incamminati sul viale del tramonto, della lente deformata attraverso cui ricordi e legami appaiono sempre più lontani e sfocati, fino a scomparire dalla memoria.
Un’altra costante che si rintraccia in questo film è l’amore profondo di Sorrentino per la musica. Non si può dire che i film del regista siano musical: gesti, dialoghi e snodi di trama non vengono certo mostrati attraverso le canzoni, ma sono storie profondamente musicali, sonore, perché il suono finisce col farla da padrone sulla scena, fin quasi a rubare spazio perfino alle immagini in movimento. È attraverso il suono che molte situazioni ci vengono mostrate, ancor più se si pensa che il protagonista è un direttore d’orchestra ormai in pensione. Il suono di strumenti accordati apre il film e il silenzio che segue un pezzo appena eseguito lo chiude, ed è in questo spazio che tutta la storia si dipana. È la musica che sottolinea la ripetitività dei gesti attraverso cui alcuni dei personaggi ci vengono presentati, senza che ci sia bisogno di spiegazioni e parole che appesantirebbero soltanto il ritmo della narrazione.
È un film difficile, indubbiamente, che parte in leggerezza ma si appesantisce man mano di significati ulteriori, di eventi tutt’altro che divertenti e lievi, come l’ambientazione e le battute sarcastiche fra il protagonista e il suo miglior amico lascerebbero supporre all’avvio della storia. È un film fatto di passaggi che non vengono spiegati, né per essere resi più comprensibili né per addolcire il peso delle verità che rivelano, vanno assorbiti e rielaborati grazie al solo filtro della propria coscienza.
Non mancano nemmeno le sequenze surreali, i sogni angosciosi che perseguitano i personaggi; le musiche, che trasformano gli eventi più quotidiani in momenti quasi onirici: come la sequenza di apertura del film, che tramuta il lento risveglio dell’albergo, in cui le vicende si svolgono, in una cerimonia ieratica, dove tutti compiono i loro gesti con l’esattezza cadenzata di una sequenza di ballo sincronizzato.
Le ambientazioni, ovviamente, sono fondamentali alla storia quanto le musiche e la trama stessa. C’è da perdersi fra il verde abbagliante e l’azzurro terso del cielo sulle Alpi Svizzere, lontani dal rumore e dalla frenesia della città. E solo in un ambiente così raccolto, così intimo, così silenzioso i suoni potevano risaltare e le emozioni silenziose e dolenti, di chi è troppo anziano anche per ricordare, emergere e prendere tutto lo spazio necessario al centro della scena.
È una storia di persistenza dei ricordi, in fondo, questa vicenda che si dipana tutto nello spazio stretto delle vacanze nell’albergo di Waldhaus (questa è la località svizzera, dove gran parte della vicenda si svolge); una storia del rapporto complicato di un padre, famoso e artista, con sua figlia e con i suoi affetti; una storia di amicizie che si raccontano “solo le cose belle”, di riflessioni sull’arte – soprattutto sul cinema ma anche sulla musica e in generale su cosa si lascia dietro, chi contribuisce con le sue opere a intrattenere il pubblico, non importa se di bassa levatura o di raffinata fattura.
E nonostante la musica, i colori, i paesaggi, i gesti calcolati, i silenzi eloquenti, i dialoghi restano forse uno degli aspetti più appaganti e piacevoli di questo film. Che si tratti delle battute che il protagonista scambia con il suo migliore amico e con sua figlia, delle conclusioni più o meno filosofiche su cosa significhi recitare in un blockbuster o fare “vero cinema”, delle riflessioni su quanto la prospettiva cambi, se a guardare il mondo sono gli occhi di un giovane o quelli di un anziano; che si parli della coppia seduta al tavolo di fianco o di quanto sia importante essere ricordati, non c’è mai nulla di ostico, lezioso o gratuito negli scambi fra i personaggi.
È un film denso, pieno di eventi, e il leitmotiv che attraversa un po’ tutto il film (ovvero l’insistenza con cui l’emissario della Regina d’Inghilterra cerca di convincere il protagonista a riprendere in mano la bacchetta per dirigere la BBC Orchestra in occasione del compleanno del Principe Filippo) è solo una parte di tutte le vicende che gli si snodano attorno e che raccontano, in respiri più o meno ampi, le vite di tutti quelli che incrociano, anche solo brevemente, il cammino di Fred Ballinger.
Pare quasi superfluo dirlo, o forse no, ma di un film così ben costruito non si può non segnalare la bravura degli interpreti. Dopo Toni Servillo, soltanto un attore del calibro di Michael Caine poteva assumere sulle sue spalle il difficile compito di interpretare il protagonista in un film di Sorrentino. Compito che è stato assolto egregiamente, come altrettanto lodevole, intensa e drammatica, è stata l’interpretazione di Harvey Keitel, che ha saputo rendere alla perfezione le sfaccettature malinconiche e tormentate di Mick Boyle. Tutti gli attori, anche le comparse più di sfondo, anche chi ha avuto diritto a una sola battuta, sono passati sullo schermo lasciando una traccia ben precisa di sé, anche per merito della regia, che ha saputo mostrarli ancora una volta attraverso i gesti, i colori, i suoni, più che sprecando infinite parole per presentarli al pubblico.
“Youth” è insomma un grande affresco intimista sulla persistenza della memoria, sui ricordi che si smarriscono, sul mondo visto attraverso gli occhi della vecchiaia, sulla leggerezza che è “anche una perversione”. “Youth” è soprattutto un film fatto di emozioni, che sicuramente non lascia mai indifferente chi lo guarda.
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